Tre paia di orecchini(anzi, quattro)/2…. Gadda

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Il quarto ed ultimo paio di orecchini è  forse il più prezioso, e   la sua luce certamente la più tragica. Si tratta infatti di   orecchini di brillanti, indossati da un’anziana signora che vagava, sola, per la casa, consumata dallo strazio per  un figlio che non tornerà più e dal terrore ispiratogli da quello sopravvissuto:  incapace, quest’ultimo,  di rivolgersi alla figura materna, pur così amata e venerata, altrimenti che attraverso un tono aggressivo e rancoroso, traboccante di un odio  che non è  se non gelosia e possessività disperata, bisogno di sentire la Mamma tutta per sé e non di doverla dividere con i petulanti peones del villaggio, su cui lei, «così invecchiata», si ostina a« bavare bontà». Ed ecco che, dunque, lo sguardo «animato da un sentimento non pio» del figlio si ostina a fissarsi sugli orecchini, unico simbolo di un passato altrimenti felice ed ora eternamente brillanti, come luci votive, in memoria dei morti,pure inutili a proteggere l’anziana madre dalla violenza di quel destino di cui pure il figlio sembra dimostrarsi volenteroso esecutore.

Adele LEhr

Adele Lehr

Quanto sia profondamente, dolorosamente autobiografico il sostrato de La cognizione del dolore non mette qui conto di ripetere. A quest’opera Gadda, ritornato dal fronte del Faiti  sofferente di disturbi all’udito nonché di quella che oggi verrebbe probabilmente definita sindrome  da stress post-traumatico, inizia a lavorare  nel’37,  nei mesi successivi alla morte della madre, Adele Lehr,  cui il figlio era legatissimo da un complesso groviglio di sentimenti: alla più assoluta devozione filiale si intrecciava, infatti- e spesso prevaleva- un sordo rancore per un’infanzia rubata,in cui Carlo ed Enrico, fanciulli, avrebbero conosciuto ogni sorta di privazione in nome dell’edificazione della villa in Brianza, a Longone al Segrino, e della generosità eccessiva e malaccorta dei Gadda destinata, noblesse oblige, ai  profittatori contadini del luogo («Bestie pazze! per cui ho patito la fame, da bimbo, la fame! Cinquecento pesos! cinquecento: di munificenza pirobutirrica: cinquecento pesos!… con la maglia rattoppata… i geloni ai diti… i piedi bagnati nelle scarpe… i castighi! perché i diti gelati non potevano stringer la penna… col mal di gola sul Fedro… con sei gradi di amor paterno addosso) simbolo di un nuovo status quo da parte della famiglia, ed un profondo risentimento per essere posto in secondo piano, lui, così scontroso ed umbratile (perché così sensibile) di fronte al «sorriso»  di Enrico (che più volte ritornerà citato nel romanzo), il figlio prediletto. La guerra, purtroppo, si porta via Enrico, che muore precipitando in azione con il proprio aereo, lasciando il Nostro con il gigantesco peso del senso di colpa del sopravvissuto : Gadda apprenderà della morte del fratello solo al ritorno a Milano nel ’19; nel Giornale di guerra e di prigionia    scriverà :“Enrico, tu non eri mio fratello, ma la parte migliore e più cara di me stesso” ( fonte).  Alla morte di Enrico la madre reagisce chiudendosi dolorosamente in sé stessa, acuendo in Carlo la cognizione (la scoperta,la consapevolezza dolorosa) di essere il figlio sbagliato, “cui non risere parentes  (non è  un caso che il riferimento al verso virgiliano  ricorra più volte nel corpus delle sue opere ossessivo refrain del  rifiuto affettivo di cui è stato – si è sentito– vittima). 


La funzione, assolta dagli orecchini, di catalizzatori dell’odio e dello strazio di Gonzalo (il protagonista del romanzo, trasparente alter ego dell’autore) è rivelata nel secondo capitolo della prima parte de La cognizione del dolore, quando la Battistina, la cameriera della Signora,  incontrando il dottor Higueróa, chiamato da  Gonzalo alla villa per un consulto,  gli parla di  dell’atteggiamento malsano del figlio nei riguardi della madre, costretta a convivere con l’ombra di quella minacciosa e inquietante presenza:

«No, no, signor dottore: è paura….Quando lui comincia a girar per casa come un’apparizione, a

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Ideo Pantaleoni, Ritratto della madre, 1922

quella donna prende male dalla paura….»

[…]-«E quando lui comincia a girare da una stanza all’altra….e la guarda….allora è quando lei ha più paura….e par che le guardi le bòccole…..»

«….Ma siete matta!…..cosa deve importargli delle bòccole?….»

«….Io so no, signor dottore, che vuol che le dica?Ma anche stamattina vedevo che le guardava i brillanti…..perché è già da un po’ di tempo che le tiene gli occhi sui brillanti…

«….Che brillanti!….»

«Sulle bòccole, che la signora non può farne senza un minuto….lei lo sa….e seguitava a guardare, a guardare….Io….ma ho paura anch’io, certe volte….sono una povera vecchia anch’io, come lei….» […]« (…)….E lui non le toglieva gli occhi dai brillanti….La signora si moveva per casa: e lui le andava dietro….e continuava a fissarle un orecchio: e poi quell’altro….e lei andava in sala, e lui dietro in sala….(…)Ah, che vita, che vita! con quella paura addosso, tutto il giorno!….senza poter vivere in pace un minuto!

E ogni volta le dice di non perderli,di stare attenta….e le dice, stringendo i denti: ¡anda, anda!….che i brillanti non ti salveranno!Salvarla di che cosa?mi dica lei….Avrà bene il diritto di portar le sue bòccole, sta povera vecchia, che gliele ha date il suo marito….e dopo tutto il lavorare che ha fatto!»[…]

Di fronte al silenzio ostinato- forse imbarazzato- del dotor Higueróa, la Battistina rincara la dose, a sottolineare l’avidità pericolosa e terribile di quel figlio degenere:

«E certe volte, tutt’ a’un botto, le urla sulla faccia che costano cinquemila pezzi, cinquemila pezzi!urla, i brillanti.e che loro hanno patito il freddo e la fame per le pere, non sa neanche lui cosa dice: per le pere?il freddo?la fame?e poi scoppia fuori in un verso che è buono lui solo di farlo, come fosse il diavolo a ridere….(…)e dice che le donne son bestie con indosso cinquemila pezzi di brillanti, e nient’altro che bestie, dice, porche bestie….e che intanto i morti hanno riempito i cimiteri, sicché non c’è più che si decide a morire, neanche le bestie». 

Il dottor Higueróa, naturalmente, minimizza le parole della donna, ritenendole chiacchiere insensate e attribuendo il comportamento di don Gonzalo  alla sua misantropia, all’abitudine a starsene chiuso in casa, tutto il giorno, «sprangato in camera a leggere, e fantasticare». La Battistina, tuttavia, non è affatto disposta a lasciarsi scoraggiare dai sofismi razionalistici del medico: lei sa cosa ha visto, ed infatti rincara la dose: «….Ah, signor dottore! Lei ne sa più di me, di sicuro….ma certe volte, mi creda, il signor don Gonzalo ha una faccia, una faccia!….Pare che sua madre,per lui, ci sia la mondo soltanto per tener su i brillanti, come una pianta per tener su le ciliegie….»

Qui Gadda spietatamente si flagella, dando voce a tutto il terribile sottosuolo ( Dostoevskij, come è noto, è tra i massimi riferimenti della scrittura gaddiana ,come dimostra la ripetizione quasi formulare «Sono stanco….sono malato»,  evidente ripresa dellincipit delle Memorie dal sottosuolo): gli improvvisi scoppi d’ira nei  confronti della madre, seguiti dai profondi abissi del senso di colpa (rivelati dalle lettere scritte dopo la sua morte, qui sotto in Risorse e note a margine, ), la sua sorda e pervicace misoginia,evidente anche, sebbene in chiave ironica, nell’assoluta indifferenza con cui accoglie le allusioni del dottore alle ottime doti di guidatrice della figlia Pina:«Ma non vede che giornate? che sole?….Vada, vada!….e impari anche lei a guidare….che la Pina le può dar lezione….un diavolo simile….Vedrà, vedrà!».Ma download (9)Gonzalo, letteralmente, non ha orecchi per le parole del medico, completamente immerso com’è nei suoi pensieri di «cose dolorose, cose lontane. Troppo lontane da quel discorso». Aveva ricevuto il dottore al suo arrivo alla villa, mostrandosi così, «alto, un po’ curvo, maturo d’epa(…).Vestito appena decentemente.[…]Un lieve prognatismo facciale, quasi un desiderio di bimbo che si fosse poi tramutato nel muso di una malinconica bestia,veniva conferendo al suo dire(…)quel dono sgradevole di perplessità e incertezza». Alle chiacchiere insulse del medico egli risponde perseguendo ostinatamente un suo proprio discorso, legato alla preoccupazione opprimente per la madre anziana, che non si cura e non si risparmia («Mia madre….sono anni….sono disperato»), e alla rabbia inestinguibile nel vederla dedicare tutte  le poche forze residue- e il suo amore- ad insegnare il francese a qualche sporco e cencioso nipote del colonnello medico Di Pascuale (sic), in forza all’ospedale centrale della città di Pastrufazio     («Il figlio pareva aver dimenticato al di là d’ogni immagine lo strazio di quegli anni, la incenerita giovinezza. Il suo rancore veniva da una lontananza più tetra, come se fra lui e la mamma ci fosse qualcosa di irreparabile, di più atroce d’ogni guerra: e d’ogni spaventosa morte»).

Al suggerimento del medico, che invita Gonzalo ad  aderire anche lui al Nistitúo di Vigilancia para la Noche ,  per scongiurare il pericolo dei frequenti furti notturni che flagellano le ville della zona e per i quali i famosi orecchini costituirebbero una sorta di innegabile istigazione (« La signora sua Mamma, poi, con quei brillanti….che ne parlano tutti….dato che li vedono tutti….e fino di lontano…..»), il figlio risponde vagamente,  riconoscendo subito tra sé la natura truffaldina e mafiosa dell’istituzione, ma pure assalito dalla paura sorda, inconfessabile, che qualcosa di orribile  potesse davvero capitare a sua madre: «Ma le vecchie, nelle buie contrade dell’inverno,gli strappano i brillanti dai lobi( I morti figli non le difendono, assorti, immemori,sotto alle croci della Cordillera).» E nemmeno i figli ancora vivi,perché forse troppo  assenti, impotenti, o crudeli.


Nell’ottavo- ed ultimo- capitolo della Cognizione la profezia del dottor Higueróa sembra purtroppo avverarsi. Nella casa deserta, dalle finestre aperte, i vigilanti del Nistitúo e poi i peones di  stanza semipermanente alla villa chiamano invano il figlio e la madre. «La casa appariva deserta». La madre verrà ritrovata nel suo letto, la coperta tirata sul volto per nascondere in parte l’orrore dell’aggressione, lo scempio fatto su quel nobile capo, ora sfigurato e tumefatto, urtato violentemente contro lo spigolo del tavolino da notte, forse nell’estremo tentativo di proteggersi: «le due povere mani levate, scheletrite, protese verso “gli altri”, come in una difesa o in una implorazione estrema». Il figlio è scomparso la sera precedente,  partito, osservato mentre si allontana dalla madre, sul terrazzo, ancora impietrita dall’ultima, orribile scenata, scoppiata sempre a causa dell’intollerabile presenza dei peones  che invadono la casa,ciabattando, profanandone  le  sacre memorie familiari ,  con il vocìo incessante e la cenciosa miseria : «Egli la trattenne per un braccio, con violenza…”Non voglio, non voglio maiali in casa….”, urlò, accostando ferocemente il volto a quello della mamma. La mamma si ritrasse col capo appena, chiuse gli occhi(…). La lasciò subito, e allora il braccio ricadde lungo la persona.(…)Un dolore disperato occupò l’anima del figliolo:la stanca dolcezza di settembre gli parve irrealtà, immagine fuggente delle cose perdute, impossibili.Avrebbe voluto inginocchiarsi e dire:”perdonami, perdonami!Mamma, sono io!”.Disse: “Se ti trovo ancora una volta nel braco dei maiali, scannerò te e loro….”». Il colpevole del delitto (il figlio,o forse i vigilanti, o il peone Giuseppe…) si dilegua, alla fine, inafferrabile,  come i diamanti della Mamma, sul cui nobile capo non sappiamo se l’assassino abbia compiuto il sacrilego furto o si sia invece arrestato, in atto di orrorifica pietà per il delitto commesso. Quando l’alba , serena e indifferente,sorge ad illuminare la scena della tragedia, « nella solitudine della campagna apparita», nè dell’uno né degli altri  viene dato al lettore di conoscere la sorte.

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Giancarlo Ferretti, in Ritratto di Gadda (1987), scrive, a proposito della conclusione del romanzo«Anche se Gonzalo, in sostanza, può venir scagionato del tutto da quegli alibi o colpevoli esterni, egli è di fatto e comunque colpevole nei suoi pensieri e deliri. […] Il matricidio insomma (se non attuato, immaginato e pensato) rimane la sola conclusione coerente, anzi addirittura il solo finale possibile dell’opera, l’inevitabile epilogo scaturito dalla fusione dei due piani e radicato nella fatale “verità” del delirio. Gadda lo sa bene, e arretra inorridito, ricaccia continuamente da sé quella conclusione, perché si sente interamente coinvolto nel personaggio di Gonzalo, e non può in alcun modo ammettere l’idea stessa di un tale delitto». 


RISORSE E NOTE A MARGINE

-Corsivi e grassetti nei testi citati sono miei;

– Per accostarsi alla biografia e all’opera  di Gadda, nonché ai problemi critici da quest’ultima suscitati, resta ancora oggi  una risorsa insostituibile  The Edimburgh Journal of Gadda Studies,  a cura di Federica Pedriali,  in cui si alternano, oltre a brani tratti dalle opere narrative e saggistiche di Gadda, contributi di studiosi di diversa provenienza scritti in italiano o in inglese; oltre ai link a specifici contributi del sito già inseriti nel post, voglio in particolare segnalare qui la pagina dedicata da Alessio Ceccherelli, dell’Università degli Studi di Urbino,  al “religioso rispetto” nutrito da Gadda per Leopardi proprio in virtù della condivisa condizione di figli negletti, rispettivamente da “Adele e Adelaide” (entrambi i titoli in corsivo costituiscono  appunto  due dei capitoli del contributo di Ceccherelli);

-Nel paragrafo 3.1.3 dell’imprescindibile  saggio su  La cognizione del dolore  a firma di  Emilio Manzotti , dedicato alla genesi del testo- e alla ricostruzione del contesto- dell’opera gaddiana,  sono riportati, nell’ordine, stralci di lettere indirizzate da Gadda, nell’ordine, al cugino Piero Gadda Conti, all’«amico fraterno» Bonaventura Tecchi e a Silvio Guarnieri (datate, rispettivamente, luglio e dicembre 1936 e gennaio 1937), attestanti lo stato di prostrazione assoluta conseguente alla scomparsa della madre (mie le enfasi grafiche):

«Io sono molto abbattuto: la morte della mamma è un dolore lento e terribile, in me si è complicato di un lungo e doloroso tormento»;

«[…] ritardo dovuto […] a una crisi di malessere, crisi dovuta soprattutto al dolore e alla disperazione per la morte della Mamma verso cui sono stato certe volte così poco umano. Ora che le ributtanti pratiche che seguono la scomparsa di una persona cara sono ultimate: municipio, pretore, notaio, ecc., l’immagine di Lei vecchia e senza aiuti mi ritorna e oltre tutto un indescrivibile rimorso mi prende per i miei scatti, così inutili e così vili. Io ho troppo sofferto e certo non ero padrone di me, ma ciò non toglie che la mia angoscia sia ora grandissima. | Ho passato delle settimane orribili, che forse ritorneranno. Non ho resistito a rimanere in America per la lontananza della Mamma. Poi non mi sono reso conto di quel che accadeva. E ora?».

«La nevrosi che ho dominato (come ho potuto) per anni e anni è nuovamente esplosa: il ricordo di mia madre è diventato una ossessione. Tutti i nodi vengono al pettine, e, orribile fra tutti, il rimorso. Non posso e non voglio intrattenermi su un argomento simile; la questione è un labirinto nel quale mi perdo. Essa motiva e caratterizza la mia grande debolezza e la mia disperazione: vedo molte cose con una lucidità spaventosa e nulla più mi resta per vivere. Una grande angoscia succede a una tensione insopportabile, con alternazioni continue. Non so se dal dolore si possa ogni volta risorgere, come una lavandaia a mattina. Troppo l’ho sperimentato, non tanto negli anni da che ci conosciamo, quanto negli anni lontani».

-L’articolato e sentito post  di  Libri nella mente   dedicato al romanzo di Gadda;

-Sulla misoginia di Gadda, la recensione di Bruno Pischedda sul lavoro di Lucilla Sergiacomo, Edizioni Noubs, Chieti 2014; [anche se io sottolinerei timidamente che al dato caratterial-biografico certamente si sovrappone il tòpos  letterario, il modello di Ipponatte e  Giovenale, ai quali la virulenza di Gadda tanto deve, sia pur colorita di una nuova, diversa, disperazione];

–Sull’importanza simbolica dei gioielli in Gadda si segnala invece l’excursus di Federico Bertoni, che mette peraltro in relazione le pagine de L’Adalgisa  come ironico controcanto del valore drammatico qui esaminato:”Il  grido «“I mè brilànt” e la paura-speranza di sentirseli un dì sradicar d’orecchio – con eventuale lacerazione del lobo – da una mano virilmente predatrice, sono una delle più ghiotte, segrete immaginative della gentildonna che risfòlgora in brillanti», fatta oggetto di mordace satira in uno dei disegni dell’Adalgisa (RR I 304)».La predilezione  di Gadda per gli orecchini (di corallo, questa volta), è presente anche nell’altro disegno milanese, « Un concerto di centoventi professori»,:«balie, ampie e costose, venute di Belluno o di Clusone, torquate d’ambra o di filigrana, d’argento o d’oro: insignite d’armille di corallo, d’argento. Gocce di sanguinei coralli ai due lobi e festante addobbo di merletti e di gale sopra il velluto color pavone del corsetto, sopra lo scarlatto grido delle lor gonne», e nella relativa nota 54 .Devo quest’ultima segnalazione alla cortesia  sollecita e impagabile di Gabrilu

-Tra Montale e Gadda si può notare una sorta di corto circuito di influenze reciproche. Se, infatti, abbiamo visto quanto l’immagine degli orecchini appesi o strappati dai lobi debbano molto al testo montaliano, è pur vero che lo stesso Montale rivela di ricordarsi bene, nella lirica Ho sceso milioni di scale ,del seguente passo gaddiano (parte seconda, cap.V): «si raccolse come poteva nella sua stremata condizione a ritrovare un rifugio, da basso, nel sottoscala: scendendo, scendendo: in un canto. Vincendo paurosamente quel vuoto d’ogni gradino, tentandoli uno dopo l’altro, col piede, aggrappandosi alla ringhiera con le mani che non sapevano più prendere, scendendo, scendendo, giù, giù, verso il buio e l’umidore del fondo».La coincidenza appare tanto più significativa se si pensa che la morte della moglie del poeta, Drusilla  Tanzi, alla cui scomparsa la lirica (come  tutta le sezione Xenia di Satura) è dedicata, segue di pochi mesi la pubblicazione del romanzo di Gadda .[ Per questo accostamento non sono riuscita a trovare riferimenti critici; se questo è dovuto a mia imperizia,sarò ben lieta  di citare debitamente quelli che mi venissero segnalati dalla bontà dei lettori].

 

8 comments

  1. Bellissima sorpresa, questi orecchini mi piacciono assai 😉 Non posso che inchinarmi di fronte all’analisi della parte clou del romanzo, che rivela una profonda “cognizione” (questa volta la tua) sia dell’autore che dell’opera. Che dire? Questo post è da archiviare nei preferiti, da rileggere e apprezzare più volte. Interessante anche la succosa parte delle risorse a margine, dove tra i tanti articoli hai gentilmente linkato anche il mio (ti ringrazio di cuore, è per me un onore essere citata sulle tue belle pagine). PS Non avrei mai immaginato che Montale avesse potuto attingere qualcosa da quell’ombroso di Gadda, grazie anche per questo piccolo asterismo in più! 😉

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    1. @Alessandra
      E’ per me un piacere avere avuto l’occasione di citare il tuo lavoro :-). Mi spiace, anzi, di averci messo tanto,molto di più di quanto avessi previsto- e ti avessi scritto…..
      Quanto ai rapporti tra Gadda e Montale,più profondi e più intimi di quanto si potrebbe a prima vista pensare, spero di farti cosa grata segnalandoti questo contributo dedicato alla loro corrispondenza: Montale, infatti, era grato a Gadda per la recensione positiva- e profonda- dedicata ad Ossi di seppia su L’Ambrosiano, nel 1932, con il semplice titolo Poesia di Montale :, riconoscendo e proclamando il poeta ligure superiore a quello che di certo lo stesso Gadda avrebbe sottoscritto a definire l’ermetismo degli stenterelli :

      Fai clic per accedere a 18%20-%20Nella%20tempesta%20della%20crisi.pdf

      I riconoscimenti pubblici e l’apprezzamento per la propria opera sono sempre rimasti un valore importante, per il futuro premio Nobel, che di questo avrebbe serbato a Gadda profonda gratitudine.Eppure i due caratteri erano diversi, Montale un po’ vanesio, desideroso di piacere, Gadda appartato ed in certo, a suo agio in pubblico come un incrociatore in uno stagno (o forse come L’albatros di Baudelaire). Scherzando ed esagerando un po’, i due si potrebbero in effetti quasi definire, guccinianamente, Il sociale e l’antisociale 😀 😀

      Un bacione – e grazie mille per il tuo affetto 🙂

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  2. Ha già detto molto Alessandra. Questo post è da archiviare, compresa la ricchezza delle note. Un post compatto e perfetto ( come è dostoevskijana la morte della madre…) . Insomma, non ho parole per dirti quanto sei brava, Dragoval. Ciao.

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  3. @ Renza
    Hai ragione, Renza. La Cognizione è certamente- anche- una riscrittura di Delitto e castigo, ma più cupa e disperata, perché ingloba in sé la tragedia greca – Gonzalo novello Oreste- e soprattutto perché senza redenzione, come il Satyricon petroniano (cui la Cognizione pure deve tanto, sul piano della struttura e del pastiche linguistico,nonché l’immagine del canto del gallo, che annuncia un’alba portatrice di sventura).
    Nel contributo dell’EJGS dedicato a Gadda e Dostoevskij,(e citato più sopra, nel testo) molto si dice di più e di meglio .
    Ciao – e mille grazie 🙂

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  4. Non so per altri, ma per me è sempre difficile commentare un post di Costellazioni Letterarie.
    Perché i post di Dragoval non sono post, sono veri e propri saggi letterari.
    Per commentare i quali (non essendo il caso di liquidarli con squallidi “mi piace/non mi piace”) occorre investire tempo e soprattutto a quelle “celluline grigie” tanto care a Poirot.

    Io non sempre mi sento in condizioni ed all’altezza di farlo (di commentare, voglio dire) e dunque soprassiedo.

    Però questa volta oso dire un paio di cose.

    Premesso che il Gaddus è uno dei pochi autori che mi confinferano, nella letteratura italiana del passato secolo, e che tutto mi piace di lui… sull’onda di questo post mi sono finalmente decisa a leggere una delle poche cose del Gaddus che ancora non avevo letto, e cioè le sue lettere a Pietro Citati (“Un gomitolo di concause”, Adelphi).

    Ebbene, sono commossa.

    E commossa due volte, perché le lettere di Gadda a Citati sono commoventi (per me, eh) almeno tanto quanto le lettere di Marcel Proust a Gaston Gallimard.

    Stesse manie, stesse idiosincrasie, stessi deliziosissimi ipocriti salamelecchi e sci sci e sci sciò per la serie “vorrei tanto venire da lei, ma sono malato…” (che poi era vero, eh, che erano malati entrambi, ma sulle loro malattie ci marciavano alla grande, eh, se ci marciavano…)

    OK mi fermo qui.
    Un abbraccione grande al Gaddus 🙂

    P.S. Anzi no, non mi fermo qui. Un amico che ormai abita da un’altra parte dell’universo, e che di matricidi e di madri profanate era un fine intenditore, vi manda questo:

    Marclel Proust “Sentimenti filiali di un parricida” (che già con il titolo è tutto un divertimento, visto che si tratta di un matricidio e non di un parricidio 🙂

    Fai clic per accedere a SENTIMENTS-FILIAUX-D-UN-PARRICIDE-MARCEL-PROUST-1907.pdf

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    1. @ Gabrilu
      Sono io che mi sono commossa, e per molteplici motivi:
      -perché anch’io ho amato profondamente l’epistolario di Gadda e Citati, perché Gadda si rivela nelle lettere, così incredibilmente indifeso (lo appare così incredibilmente anche di più nell’epistolario con Goffredo Parise);
      – per il meraviglioso contributo che hai voluto condividere con i lettori di questo blog;
      – per le bellissime, sia pure immeritate parole che al suddetto blog hai rivolto;
      -per l’inatteso e profondo sentimento di sollievo nell’apprendere che un’altra parte dell’universo è abitata da chi ci è caro.

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