STORIE D’UN IMPIEGATO. PIRANDELLO E HERMAN MELVILLE

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Il titolo qui proposto, preso ovviamente in prestito- a (s)proposito ma non troppo- dallo splendido album di Fabrizio De André, unisce due autori che non potrebbero essere più diversi e distanti (nello spazio prima ancora che nel tempo), ma che hanno conosciuto entrambi la dolorosa esperienza della declassazione e che hanno saputo fare di due impiegati piccoli piccoli  il simbolo della protesta contro un sistema che schiaccia ogni cosa inesorabile, elevando all’altezza di una condizione tragica  la  loro – e la propria-  miserabile esistenza.

Il treno ha fischiato viene pubblicata per la prima volta sul  Corriere della Sera il 22 febbraio del 1914 e successivamente inclusa nel volume L’uomo solo, edito da Bemporad nel 1922,. L’autore, Luigi Pirandello, ha avviato la collaborazione con la testata milanese cinque anni prima,e qui ha pubblicato buona parte della sua  produzione narrativa,  che sarà poi raccolta nell’ambizioso progetto delle Novelle per un anno. e che costuirà, sempre, la fucina della sua contemporanea e poi   futura produzione teatrale. Eppure, nonostante sia un autore ormai noto e abbastanza affermato, e con buoni contatti nel panorama culturale italiano, Pirandello non è un uomo sereno. La sua vita familiare è stata segnata oltre dieci anni  prima(nel 1903) dal crollo della miniera di zolfo in cui la famiglia aveva inluigi-pirandello.jpgvestito tutte le proprie sostanze, e in seguito al quale, a causa dello choc dovuto all’improvviso tracollo finanziario, la moglie Maria Antonietta Portulano diviene preda di una fortissima psicosi maniaco-depressiva, dalla quale non si riprenderà più fino alla morte (avvenuta oltre vent’anni dopo quella dello scrittore). La manifestazione più evidente di questo disturbo è la gelosia maniacale con cui Maria Antonietta tiranneggia il marito, sospettando qualsiasi presenza o compagnia femminile, compresa quella della figlia Lietta, che  sarà spinta per questo a tentare il suicidio e quindi  ad allontanarsi da casa. Trovandosi per giunta, in un simile inferno, a dover ormai provvedere in prima persona alle necessità familiari senza poter più contare su alcuna rendita, Pirandello è costretto ad impartire lezioni private di italiano e tedesco che si aggiungono all’insegnamento di stilistica al magistero femminile che l’autore ricopriva già dal 1897. L’inopinato successo di pubblico de Il Fu Mattia Pascal, pubblicato l’anno successivo alla sciagura e  non a caso incentrato sul tentativo impossibile di fuga da sé stessi e dalla trappola familiare, gli aprirà appunto la strada alla collaborazione con la rivista milanese.

La novella di cui qui si parla  è tra le più note in assoluto della sua vasta produzione; protagonista è Belluca, impiegato in un ufficio contabile, un uomo che « p mansueto e sottomesso, più metodico e paziente ( ..) non si sarebbe potuto immaginare» , che i suoi colleghi definiscono «circoscritto», «Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz’altra memoria che non fosse di partite aperte,di partite semplici o doppie o di storno (…) e via dicendo», oggetto e vittima di battute e scherzi crudeli- insomma, di mobbing a pieno titolo, a cui peraltro egli rimane totalmente insensibile, come se nulla di tutto questo lo riguardasse:

cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, così per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po’, a fargli almeno drizzare un po’ le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levar un piede per sparar qualche calcio. Niente! S’era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com’era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte.

Eppure, in maniera del tutto inaspettata, la sera precedente all’inizio in medias res del racconto, il “vecchio somaro” «s’era fieramente ribellato al suo capo-ufficio, e (..) poi, all’aspra riprensione di questo, per poco non gli s’era scagliato addosso», comportamento che gli era naturalmente costato un immediato ricovero coatto in manicomio. A determinare il quale, peraltro, non era stata soltanto la reazione in sé, quanto piuttosto l’atteggiamento, del tutto nuovo per lui, di un sorriso e di uno sguardo spalancati su un altrove indefinibile, e cosa ancora peggiore, le motivazioni addotte per spiegare la sua improvvisa metamorfosi:

Pareva che il viso, tutt’a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt’a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d’improvviso all’intorno, lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt’a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai.
Così ilare, d’una ilarità vaga e piena di stordimento, s’era presentato all’ufficio.
E, tutto il giorno, non aveva combinato niente.
La sera, il capo-ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte:
– E come mai? Che hai combinato tutt’oggi?
Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un’aria d’impudenza, aprendo le mani.Gaetano_Pappagone
– Che significa? – aveva allora esclamato il capo-ufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. – Ohé, Belluca!

– Niente, – aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d’impudenza e d’imbecillità su le labbra. – Il treno, signor Cavaliere.
– Il treno? Che treno?
– Ha fischiato.
– Ma che diavolo dici?
– Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare…
– Il treno?
– Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia… oppure oppure…
nelle foreste del Congo… Si fa in un attimo, signor Cavaliere!

Le sonore risate dei colleghi alle parole di Belluca non fanno altro che imbestialire ulteriormente il capufficio,  furibondo per la figuraccia fatta, che dunque, come si è visto, non esita ad alzare le mani. Ma questa volta Belluca reagisce, gridando al mondo intero di non essere più disposto, ormai, a subire un simile trattamento:

Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s’era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più,  ora ch’egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo.

Al lettore, certo felice per la ribellione contro l’ngiustizia ma disorientato e confuso dalla faccenda del fischio del treno, viene in soccorso il narratore, un vicino di casa di Belluca, che ad onta del senso comune definisce la sua reazione « naturalissima», come la coda di un mostro, che se vista da sola appare a sua volta mostruosa, ma se «riattaccata» alla figura a cui appartiene non potrà che apparire «quale dev’essere». Ad essere mostruose, invero, sono le condizioni di vita del povero impiegato, che il narratore ci rivela con commossa partecipazione:

Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca.
Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con me come mai quell’uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita.
Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera:queste due, vecchissime, per cataratta; l’altra, la moglie, senza cataratta,cieca fissa; palpebre murate.
Tutt’e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l’una con quattro, l’altra con tre fi gliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto.
Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt’e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa.

Per Belluca, dunque, non c’è nemmeno il sollievo di un letto che ne accolga il riposo. Quando gli occhi gli si chiudono da soli per la stanchezza, quando la testa gli si piega sulle carte da ricopiare, trova la forza di alzarsi e buttarsi su un divanaccio sgangherato dove, coperto alla meno peggio, sprofonda in un sonno senza sogni da cui si sveglia ogni mattina « a stento, più intontito che mai». Almeno fino a due notti prima, quando ha ricevuto quel dono, così immenso e inaspettato: la consapevolezza di essere ancora vivo.

Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, (…) s’era dimenticato da anni e anni – ma proprio dimenticato – che il mondo esisteva.
Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l’eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d’addormentarsi subito. E,d’improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno.[…]
Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d’un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s’era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt’intorno. S’era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s’allontanava nella notte.
Boccioni Il trenoC’era, ah! c’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c’era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s’avviava… Firenze, Bologna, Torino, Venezia… tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr’egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. […]. L’attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l’immaginazione d’improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari… Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo.

Il fischio del treno ha dunque per Belluca il valore della buona novella, di un’annunciazione improvvisa che lo resuscita,  restituendolo a sé stesso. Dall’atmosfera sanza tempo tinta della sua esistenza impossibile Belluca ri-esce a riveder le stelle, ad intravedere la speranza, sia pure solo teorica, di una vita diversa, di un destino altro che al ritmo inafferrabile della modernità sfreccia dritto verso il futuro. Belluca non salirà su quel treno, perché da Mattia Pascal ha imparato la lezione che tentare di fuggire da sé stessi è impossibile e inutile; semplicemente, lascerà che la sua fantasia ne segua il brivido elettrico, portandolo in quello stesso istante mille miglia lontano dalla propria miseria:

Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo-ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto, il capo-ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo:
Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato…


Bartleby the scrivener, pubblicato sul mensile  newyorkese Putnam’s Magazine  nel 1953, conflluirà poi tre anni più tardinella raccolta The Piazza Tales, (I racconti della veranda) . Si tratta di un periodo complicato, per Melville: dopo l’ingenerosa accoglienza critica riservata a Moby Dick, pubblicato due anni prima, l’editore Harper rivede l’accordo stipulato per la pubblicazione del suo nuovo romanzo, Pierre,o delle ambiguità e l’editore inglese Bentley si rifiuta di pubblicare il testo senza profondi rimaneggiamenti giudicati dall’autore inaccettabili. Melville, dunque non può contare su alcun anticipo e sta valutando la pubblicazione anonima del romanzo, quando nel 1852 l’editore Briggs invia un appello a tutti gli scrittori americani per “dare vita ad una rivista the piazza tales diversa da tutte quelle esistenti” e realizzare l’ambizione di fondare una sorta di canone della letteratura americana contemporanea. A Melville viene dedicato il numero di Febbraio, con una retrospettiva dei lavori pubblicati fino a quel momento ed un saggio critico a firma di Fitz James O’Brien, un giovane immigrato irlandese. Bartleby sarà dunque il primo inedito di Melville ad apparire sulla rivista, pubblicato in due puntate sui numeri di Novembre e Dicembre. La trama è nota. Un avvocato di Wall Street, il narratore della storia, vedendo considerevolmente aumentare il numero di clienti del suo ufficio pubblica un annuncio per un terzo impiegato alla copia dei documenti; in risposta all’annuncio si presenta  un giovane uomo che si ferma «immobile» sulla soglia dell’ufficio:

Posso vederlo come fosse adesso– pallida e linda, pietosamente rispettabile, irrimediabilmente rassegnata! Era Bartleby.

L’avvocato assume il giovane immediatamente, contento di avere un impiegato così calmo e distinto e sperando che, esercitando la sua influenza sugli ltri due impiegati dell’ufficio, il bisunto Turkey (Tacchino) e il segaligno Nipper (Pinza, o Pince-Nez, come preferisce tradurre Gianna Lonza), ne possa risollevare la rispettabilità dell’immagine. In realtà, appare subito evidente come la schiva timidezza di Bartleby non ne faccia un soggetto molto incline alla socializzazione, preferendo egli rimanere nel cantuccio assegnatogli, accanto ad una finestra che dà su un muro di mattoni, con un po’ di luce che filtra unicamente dall’alto; tuttavia si rivela un lavoratore dedicato ed infaticabile, un ottimo acquisto per l’ufficio, non fosse per quel suo atteggiamento perpetuamente silenzioso e dimesso, triste come quello di un fantasma:

Inizialmente, Bartleby sbrigava un’incredibile mole di lavoro. Come se fosse stato da tempo affamato di avere qualcosa da copiare, sembrava abbuffarsi dei miei documenti. Non c’era pausa per la digestione. Procedeva spedito notte e giorno, copiando documenti alla luce del sole o a lume di candela. Sarei stato ben felice di tanta dedizione, se avesse mostrato  allegria nel suo zelo.  Ma egli scriveva meccanicamente, pallido e silenzioso.

Tre soli giorni dopo la sua assunzione, il narratore si troverà ad affrontare, a seguito di  una sua precisa e banalissima richiesta, una reazione del tutto inaspettata-quieta e remissiva, ma nondimeno irremovibile:

[L]o chiamai, spiegandogli concisamente cosa volevo che facesse- vale a dire, esaminare con me un breve documento. Immaginate la mia sorpresa, anzi ,la mia costernazione quando, senza muoversi dalla sua postazione, Bartleby, con voce dolce ma ferma, rispose :«Preferirei di no». Stetti per un po’ in perfetto silenzio, chiamando a raccolta le mie facoltà. Pensai immediatamente che le mie orecchie mi avessero ingannato,

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Marco Quaglia, a sinistra, nei panni di  Bartleby e Gerry Bamman in quelli del narratore, nell’allestimento di “Bartleby the Scrivener” al Blue Heron Arts Center.(Credit Jim Baldassare)

o che Bartleby non avesse capito affatto le mie parole. Ripetei la mia richiesta cercando di essere il più chiaro possibile. Ma in tono altrettanto chiaro giunse la medesima risposta: «Preferirei di no» . «Prefereirei di no», gli feci eco, sentendo montare la collera e attraversando la stanza in un balzo,« è per caso completamente impazzito? Voglio che mi aiuti a controllare questa copia- prenda!», e la gettai verso di lui.
« Preferirei di no», disse.
Lo fissai intensamente. Il suo volto era magro e composto; i suoi occhi grigi,opachi e calmi. Non mostrava alcun segno d’agitazione. Ci fosse stata la minima traccia di disagio, ira, impazienza o impertinenza nel suo contegno; in altre parole, ci fosse stata qualsiasi traccia di ordinaria umanità, senza dubbio lo avrei cacciato dall’edificio a calci.

Non stupisce, dunque, che la ribellione di un uomo simile abbia un effetto non meno deflagrante di quello suscitato da Belluca, anche se la modalità e le tempistiche sono, come  abbiamo visto,del tutto diverse. Bartleby, che nella sua inamovibile resistenza non fornisce alcuna spiegazione per il proprio comportamento, si pone davanti al narratore- e al lettore-  come un enigma morale vivente, non meno arduo da decifrare dell’indovinello della Sfinge. Dinanzi all’irrevocabilità del suo rifiuto, il narratore chiama in aiuto gli altri due impiegati a verificare il diritto della propria richiesta,  quasi sentisse  improvvisamente mancargli il terreno sotto i piedi avventurandosi in una regione del tutto ignota, dove ruoli, convinzioni e convenzioni sembrano perdere valore:

Non è certo raro che un uomo, attaccato con un’irragionevolezza violenta e ingiustificata, cominci a vacillare nelle sue più granitiche certezze. Egli comincia, come dire, a sospettare vagamente che, per quanto possa apparire incredibile, il diritto e la ragione siano per intero dalla parte dell’avversario. Di conseguenza, in presenza di terzi non coinvolti, egli si rivolge a loro per trovare un sostegno alla propria mente instabile.

Consapevole della propria inadeguatezza, dopo diversi tentativi di provocare una reazione dello scrivano ed essere stato diverse volte sul punto di licenziarlo, il narratore  accetta di confrontarsi con il mistero di quest’uomo, così serio ed onesto anche se totalmente distaccato, di cui, pur  non potendo servirsi, non riesce a fare a meno. Una domenica, avendo deciso di passare dall’ufficio per ingannare il tempo necessario all’inizio della messa, l’avvocato non riesce ad aprire la porta con la chiave perché qualcosa nella serratura le si oppone. L’avvocato grida, ed ecco che dall’interno dell’ufficio qualcuno gira la chiave e apre la porta: è ovviamente un Bartleby pallido e composto come sempre, ma impresentabile, che consiglia al narratore d fare un paio di giri dell’isolato prima di tornare e trovarlo disposto a ricevere. L’avvocato, colto di sorpresa, in un primo tempo obbedisce,ma poi,  còlto per strada da una sorta di sorda impotenza torna precipitosamente in ufficio, dove di Bartleby non sembra esserci più traccia, e frugando nella sua postazione «pieno di curiosità» non ci mette molto a comprendere- dalla coperta arrotolata sotto la scrivania, dalla sagome lievemente impressa sul divano, dal fazzoletto annodato che costituisce il salvadanaio dei suoi miseri guadagni- che Bartleby avesse eletto l’ufficio anche a proprio domicilio:

Sì, pensai, Bartleby ha scelto di  fare di quest’ufficio la sua casa, solitaria dimora da scapolo. Immediatamente mi attraversò il pensiero: «Che miserabile abbandono e assenza di contatti umani si rivelano, qui! La sua povertà è grande, ma la sua solitudine, quanto è orribile!

thomas Eakins the thinker
Thomas Eakins, Il pensatore

 Pensaci. Di domenica, Wall Street è deserta come Petra; ed ogni notte di ogni giorno c’è il vuoto assoluto.Questo edificio, che nei giorni feriali rigurgita di lavoro e di vita, al calar della notte riecheggia la totale assenza, e per tutta la domenica è pura desolazione. E qui Bartleby ha posto la sua casa, spettatore solitario di un deserto già pieno di vita(…).

 

 

A questo pensiero il narratore viene sopraffatto, per la prima volta nella sua  vita, da «un sentimento di struggente malinconia». Egli ha riconosciuto l’umanità di Bartleby,  anche lui un «figlio di Adamo», il  «prossimo» del precetto evangelico. Come Cristo,o come il principe Myškin, Bartleby è una figura che dà scandalo, essendo in grado di sovvertire con una sola formula l’intero, indubitabile ordine costituito di servi e padroni, di comando e obbedienza. Come un’eco, Bartleby non parla se non per rispondere– con la stessa eterna resilienza; come uno specchio, riflette il caos e il nonsenso contrabbandati come normalità dal cosiddetto senso comune. Novello Davide, il piccolo scrivano ha scagliato il sasso, rivelando come il colosso  del nuovo, arrambante establishment finanziario abbia in realtà i  piedi d’argilla. E il sistema, qui impersonato nella figura del narratore che ne è a sua volta vittima, reagisce come noi stessi lo vediamo agire sempre, determinato ad espellere l’anomalia.

Niente indispone tanto una persona perbene quanto la resistenza passiva.[…]La passività di Bartleby talvolta mi irritava. Mi sentivo stranamente spinto a scontrarmi con lui, a suscitare la scintilla di qualche reazione rabbiosa che corrispondesse alla mia. [….]. Le mie prime reazioni erano state una grande afflizione e una sincera pietà; tuttavia, a mano a mano che la desolazione di Bartleby cresceva nella mia immaginazione, l’afflizione cedeva il posto alla paura, la pietà al ribrezzo.

 Come Gregor Samsa, Bartleby diviene dunque un parassita ingombrante e repellente, di cui trovare il modo di sbarazzarsi.  Per tacitare la prioria coscienza, il narratore ricorre al vieto repertorio di autogiustificazioni imposte dal senso comune, come l’intollerabilità di una sofferenza estrema alla quale non si può porre rimedio: «È pur vero, ed è così orribile, che fino ad un certo punto la vista della sofferenza susciti in noi i più nobili sentimenti; ma, in alcuni casi particolari, superato quel punto, non più. […]Per un essere sensibile, la pietà è talvolta essa stessa dolore. E quando ci si rende conto che tale pietà non può portare alcun effettivo soccorso, il senso comune impone di sbarazzarsene». Ma il suo comportamento riflette invece un conflitto interiore ben altrimenti profondo, come dimostra la sua rinuncia ad andare in chiesa, sentendosene indegno, subito dopo aver preso la decisione di parlare a Bartleby per allontanarlo dall’ufficio la mattina seguente. L’avvocato si è infatti convinto che Bartleby sia un caso senza speranza, dall’anima sofferente ed incurabile. Il comportamento di Bartleby Bartleby1costituisce infatti, come si è detto, un enigma insoluto: egli non chiede nulla, non è violento, non interferisce, non interagisce. Non fa altro che rifiutare -rifiutarsiinizialmente di fare il proprio lavoro, poi, semplicemente, di fare qualsiasi altra cosa.Com’è facile immaginare- e difficilissimo da accettare-, il rifiuto di Bartleby non è certo rivolto all’incombenza immediata, o al lavoro di copista, o alla persona stessa del narratore; il rifiuto riguarda l’accettazione della vita stessa, con le sue astrusità, le sue incongruenze, e soprattutto con il suo immancabile carico di dolore. j che  preclude qualsiasi orizzonte; non si toglie la vita, ma lascia semplicemente che quest’ultima gli venga a poco a poco sottratta.

Con il suo rifiuto, Bartleby è consapevole di aver messo in moto una valanga inesorabile che lo porterà a perdere il lavoro, il luogo dove vive e la vita stessa;  quando l’avvocato, incapace di cacciarlo perché sopraffatto dalla pietà, spinto  dalle chiacchiere  e dai commenti dei colleghi e dei clienti, si risolverà a traslocare egli stesso, per liberarsi del suo impossibile scrivano (ma non prima di averlo supplicato di seguirlo, anche a casa sua), Bartleby pretenderà di continuare imperterrito la propria routine, e quando le forze dell’ordine, chiamate dal nuovo proprietario dell’ufficio, verranno a prenderlo, egli semplicemente, stolidamente, si lascerà condurre senza opporre resistenza alla Hall of Justice, la prigione di New York, più nota come le Tombe:

Quando rientrai nel mio ufficio, cielo!, trovai un biglietto del proprietario dell’edificio sulla scrivania. Lo aprii con mani tremanti. Mi informava che lo scrivente aveva mandato a chiamare la polizia, e che Bartleby era stato portato alle Tombe con l’accusa di vagabondaggio. Inoltre, siccome ne sapevo di lui più di chiunque altro, mi pregava di recarmi in quel luogo per fornire un’accurata  dichiarazione sui  fatti.

Con l’animo ancora in profondo conflitto tra indignazione e approvazione- per quella risolutezza del nuovo proprietario, che egli non era mai stato in grado di attuare- , l’avvocato decide quel giorno stesso di andare a far visita allo sventurato in carcere (una delle evangeliche  opere di misericordia , quale ironia!); lo troverà in uno stato di assoluta prostrazione; all’implicita richiesta di perdono, nessun perdono verrà offerto.

Non avendo commesso alcun crimine, e grazie al suo comportamento del tutto mansueto e inoffensivo , gli era stato concesso di girare liberamente per la prigione,e soprttutto nel cortile  interno, ricoperto d’erba .E qui lo trovai, in piedi da solo nell’angolo più remoto, il suo volto rivolto ad un alto muro, mentre tutt’attorno, dalle sbarre delle finestre del carcere, mi sembrava di vedere gli occhi di ladri e assassini posati su di lui.
“Bartleby!”
“La conosco,” disse, senza voltarsi,—”e non ho nulla da dirle.”
“Non sono stato io a portarla qui, Bartleby,” dissi, profondamente colpito da quell’implicito sospetto. “E per lei, non dovrebbe essre un posto così oribile. Nessuna copa la contamina per il fatto di essere in questo posto . E guardi, non è poi così triste come si potrebbe immaginare.Guardi, c’è il cielo, e c’è l’erba”
“So dove mi trovo” , rispose, mi senza aggiungere altro; e così lo lasciai.

Lo, ritroverà, il narratore, pochi giorni dopo, consumato dall’inedia (si rifiutava infatti di mangiare), sdraiato su un fianco ai piedi del muro con le ginocchia piegate, in posizione fetale, in un ultimo tentativo di difendersi da un mondo tanto ingiustamente crudele, a riposare, finalmente, «con i re e i consiglieri della Terra».  E così al narratore, come al vecchio marinaio non resta che proclamare la propria infamia, devastato dal rimorso di non aver saputo – o voluto- proteggere una creatura tanto innocente che pure una volta sia pure a suo modo, gli aveva chiesto aiuto (quando il narratore, dopo averlo ripetutamente invitato a lasciare l’ufficio e avergli oferto anche del denaro, gli aveva chiesto, quasi aggressivamente: «Ha dunque intenzione di lasciarmi oppure no?», Bartleby aveva risposto: «Preferirei “non” lasciarla», “enfatizzando sottilmente la negazione”.)

Bartleby2

 



RISORSE E NOTE A MARGINE

-Le enfasi grafiche (corsivi e grassetti) presenti nelle citazioni dei testi sono miei ;

-L’ottimo sito Pirandello Web  creato in occasione del centocinquantenario della nascita ;

-Il testo integrale de Il treno ha fischiato;

-L’analisi “politica” della novella di Pirandello del sito Homolaicus

-Il testo integrale di Bartleby, in inglese; la traduzione dei brani qui sopra riportati è mia.

-Nel rileggere la novella di Pirandello, non potevo fare a meno di pensare come noi tutti, grazie al web, non facciamo altro  che replicare e realizzare, continuamente, il desiderio di evasione di Belluca in versione 2.0; quanto alla Siberia o alle foreste del Congo, non c’è più neanche bisogno di fare uno sforzo di immaginazione, grazie a Google Earth  ….;

-Il repertorio in rete relaltivo a Bartleby è sterminato, ma quasi tutto in lingua inglese. Tra gli interventi più interessanti segnalo questo contributo, in inglese, appunto, che ha per argomento il valore simbolico del rifiuto di Bartleby per il cibo come metafora della resistenza passiva e il “paradosso tragico” del conflitto ultimo tra vita e libertà;

-Nell‘epilogo del racconto di Melville, il narratore ci informa di non essere in grado di soddisfare la curiosità di coloro che si fossero interessati alla vicenda del povero Bartleby su chi fosse veramente o quale esistenza avesse condotto prima di divenire impiegato nel suo ufficio. Si dichiara pertanto incerto se divulgare o meno un rumour, una diceria secondo la quale Bartleby sarebbe stato impiegato all‘ufficio delle lettere smarrite (in inglese, “morte”: Dead Letters Office) di Washington, affermando di essere, a tale pensiero, sopraffatto dall’emozione:

Lettere morte! Non suona forse come uomini morti? Immaginate un uomo, per natura o disgrazia incline ad una pallida disperazione; può esistere atltro impiego atto ad esaltarla come il maneggiare continuamente queste lettere morte, e metterle in fila per darle alle fiamme? Perché una carrellata di queste viene bruciata ogni anno. Talvolta dall’involucro di carta il pallido impiegato prende un anello: il dito a cui era destinato, forse, marcisce nella tomba; un assegno spedito in un impeto di carità- colui che avrebbe alleviato, non mangia più né avverte più la fame; perdono per chi è morto dannato, speranza per chi  morì disperato; buone notizie per quelli morti sopraffatti da calamità senza aiuto.
Con il loro carico di vita, queste lettere venivano spedite alla morte.

Nella vita precedente di Bartleby giace dunque la chiave per comprendere la sua ostinata e irremovibile disperazione, che diventa dunque, anche questa, «una coda naturalissima», accresciuta anche dal suo stesso lavoro di copista, che egli d’improvviso, come si è visto, si rifiuta categoricamente di svolgere per sempre. Nella sua raccolta di aforismi e pensieri Strada a senso unico,  Walter Benjamin  sostiene che un testo copiato a mano occupa interamente l’animo di colui che lo copia, che ha così modo di scoprire gli aspetti più profondi di sé stesso, poiché la parola scritta deve passare attraverso la mente, il corpo e la mano, creando  un circuito ininterrotto tra corpo e linguaggio.

7 comments

  1. Carissima 🙂 Ogni tanto li fai attendere i tuoi lettori, ma poi li ripaghi con degli articoli stupendi. La novella pirandelliana colpisce molto, è un inno alla fantasia come via di salvezza, come spazio di evasione da una vita infelice e alienata. Interessante il confronto con l’altro modo di ribellarsi all’ordine costituito, che appare più calmo e imperscrutabile ma sempre inamovibile nel suo rifiuto. Stranamente è da anni che rimando l’incontro con Bartleby, anche se ho l’impressione che si rivelerà una lettura indimenticabile.

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    1. @Alessandra
      Carissima Alessandra,
      ti ringrazio dell’affetto e della dichiarazione di attesa / attenzione per le mie nugae ; come purtroppo sappiamo tutti, le vicissitudini dell’esistenza reclamano a volte con voce assordante la nostra presenza e il nostro impegno altrove, lontano da dove vorremmo essere e da ciò che vorremmo fare.
      Quanto a Bartleby , io l’ho sempre trovato un racconto quasi “miracoloso”, un vero manifesto del Novecento, un precursore di Kafka- non fosse che l’evidenza afferma che è stato scrtto appunto nel 1853….una lettura per la quale,come tu dici, indimenticabile è la parola, e dopo la quale non si rimane più gli stessi.Senza contare gli infiniti livelli di lettura e di analisi che offre….
      Spero vorrai- e verrai a- raccontarcelo, quando lo incontrerai 🙂
      Un abbraccio e grazie come sempre :-*

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  2. Interessante l’accostamento tra due uomini, entrambi impiegati (e bello il riferimento a Benjamin che ci offre significati), che sembrano lasciarsi vivere. La differenza è che Belluca vive, nel fischio del treno e nel sogno ad occhi aperti ma vive, Bartleby invece si lascia morire, non ci sono sogni ad occhi aperti per lui ma solo la desolazione di un muro.
    Ho letto con vero piacere la recensione delle novelle dei due grandi scrittori, divisi dall’oceano e dagli anni. Il più misterioso e inconoscibile, per me, rimane Bartleby, ma probabilmente è solo lo specchio che serve a far emergere i sentimenti e le reazioni del narratore.

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    1. @zapgina
      Hai colto pienamente nel segno.
      Probabilmente, la diversa soluzione che trovano entrambi risentono- anche- della diversa temperie culturale e storica in cui i due artisti si muovono: Pirandello, nel pieno del vitalismo di matrice nietzscheiana e bergsoniana che permea l’intera cultura europea del primo Novecento- causa anche dell’atroce equivoco interventista che porterà il Continente alla catastrofe; Melville, invece,è ideologicamente lontano dall’ottimismo della New York in espansione,Mecca nascente del capitalismo (non a caso il racconto è ambientato a Wall Street), più vicino invece a quel puritanesimo, a quel senso di maledizione da Antico Testamento che (pre)vede e piange le vittime dell’adorazione del Vitello d’oro. Melville, insomma, è un propheta in patria inascoltato, come dimostra l’accoglienza ostile di Moby Dick; per questo- anche per questo, forse, Bartleby diviene il simbolo del suo silenzio, della sua cetra appesa alle fronde dei salici.
      Grazie di cuore per essere passata- ed esserti fermata 🙂
      Un saluto

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  3. I tuoi post, cara Dragoval, sono sempre intensi e impongono, almeno a me, un rimuginare, un ritornare sui molti aspetti delle questioni che ci presenti. Dunque, Pirandello e Melville e due impiegati a confronto. ” Il treno ha fischiato” è sempre stata, a mio giudizio, una delle più belle Novelle di Pirandello. Tragica e liberatoria insieme, con quella tensione verso un altrove che sempre dovrebbe accompagnarci, anche nei momenti bui. L’ analisi politica che segnali, interessante, forse pecca di troppo determinismo che esclude altri significati , sicuramente plausibili. Quanto a Bartleby effettivamente – fatte salve le tue analisi sociali e le suggestive osservazioni di Benjamin- conserva qualcosa di misterioso. In genere il suo personaggio viene citato per quella sua capacità di preferire di no, quindi come modello a cui guardare in tutti i momenti della vita in cui l’ ignavia prevale. Invece la sua determinazione a non cedere è il nodo del mistero di una vita. Quindi, rimuginando, sono caduta nel sincretismo moderno e mi perdonerai se mi lancio in analogie e richiami forse troppo personali. Prima di tutto, Bartleby mi ha richiamato Emerenc, il personaggio de La porta di Magda Szabo che chiede di essere capita per ciò che non dice e che non vuole dire. L’ interdetto che la lega alla scrittrice narrante è un non detto che unisce ( o dovrebbe unire) profondamente. Una storia di amicizia, un ritorno agli archetipi comunicativi che non hanno bisogno del verbo: un tragico passato, recidendo il superfluo che si veicola con il linguaggio, riesce a conservare l’ essenzialità del fare e delle cose.
    Eppure, chi narra non comprenderà fino in fondo che la più vera ragione è di chi tace/ il canto che singhiozza è un canto di pace.
    Poi ( coraggio sono al termine…), uno spettacolo teatrale sul Minotauro di Cortàzar, che interpreta il personaggio mitologico in senso divergente, come emblema di libertà, e le parole in punto di morte della creatura mitologica Non voglio lacrime, non voglio immagini. Solo l’oblio., mi hanno riportato al tuo bellissimo post. Qui mi fermo e mi cospargo il capo di cenere …

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    1. @Renza
      Carissima!
      E’ sempre una gioia, per me, vederti passare di qui e fermarti. E questa volta, la gioia è doppia,nel vederti socia attiva e partecipe del Club degli asterismi! 🙂 🙂
      Ho amato moltissimo La porta , e in particolare il peronaggio di Emerenc (tra l’altro, ho scoperto che ne esiste una versione cinematogratografica a firma di István Szabó, dove Emerenc è interpretata dalla magnifica Helen Mirren); un personaggio davvero indimenticabile, che propone alla narratrice, come al narratore di Bartleby, il confronto con il mistero,come tu dici che è poi, sempre un mistero di fede (se laica o religiosa non importa) nell’essere umano.
      Sul Minotauro di Cortázar (ma credo sia un adattamento di un poema drammatico in cinque scene, intitolato I re ) non ne sapevo assolutamente nulla- la letteratura dell’America latina, confesso, mi è piuttosto ostica (con l’eccezione di Borges). Il testo, però, mi ha incuriosita molto- e chissà che non venga anche il momento di questo autore, magari – come sempre- quando meno me lo aspetto.
      Un saluto, dunque, e mille grazie ancora per questo tuo contributo 🙂 [Che poi sono appunto i vostri contributi, il sale di questo blog].
      Ciao 🙂

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  4. Dragoval, generosissima! Già socia del club degli asterismi mi sembra un gran regalo, non meritato. Diciamo che mi impegnerò, ma non garantisco sui risultati…
    Tornando al discorso Minotauro ( che appartiene a una materia in cui ti muovi regalmente), è vero : lo spettacolo a cui facevo riferimento è tratto da I re . http://www.archiviozeta.eu/minotauro/, andato in scena al Cimitero militare germanico della Futa https://it.wikipedia.org/wiki/Cimitero_militare_germanico_della_Futa. Un’ esperienza molto intensa.
    La lettura controcorrente di Cortazàr -il bestione come metafora del poeta che educa alla libertà, tanto che le vittime liberate lo rimpiangeranno- non è unica. Anche Dürrenmatt ne ha scritto un racconto, dal titolo omonimo, dove esso appare come vittima di altrui azioni.
    Tutti i testi si trovano facilmente in rete. Grazie, cara e un abbraccio.
    P.S. Cercherò in dvd il film tratto da ” La porta” : mi attira moltissimo.

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