La viltà del rifiuto. Orazio e Cesare Pavese

 

O Pompeo, primo dei miei amici, che spesso corresti con me il pericolo estremo nell’esercito di Bruto, chi ti restituì Quirite agli dei patrii e al cielo d’Italia?

 Con te, spesso trascorsi tra le coppe le lunghe giornate, incoronandomi il capo lucido di malobatro sirio; e con te, abbandonata alquanto vilmente la parmula,  provai la rotta sfrenata di Filippi, quando i valorosi furono sconfitti e gli spavaldi batterono il mento nella polvere sozza. […]

Quando si accosta ad Orazio facendone prova di traduzione con l’asprezza maldestra dell’adolescenza, Pavese non può immaginare che, esattamente mille anni dopo battaglia di Filippi, ,  anche a lui toccherà assistere alla guerra fratricida   che insanguinerà l’Italia fino alla Liberazione, e in cui moriranno molti dei suoi amici più cari.  L’immagine dell’Ode II,7 in cui Orazio rievoca l’abbandono dello scudo come simbolo della sua diserzione   tormenterà Pavese per sempre, fino alla sua ultima raccolta, quando di quei versi si ricorderà per provare a dar voce a quel «vecchio rimorso» che lo accompagnerà fino alla fine.

Quando le sorti della res publica romana si decidono, e per sempre, nella piana di Filippi, Orazio non è ancora il  flaneur  della via Sacra, il cortigiano blasé dalla sprezzatura perfetta, il garbato porcellino del gregge epicureo; al contrario, è un giovane e convinto seguace degli ideali della libertas appresi  alla scuola di.Cratippo di Pergamo (già fervente pomepiano che aveva combattuto a Farsàlo contro Cesare e si era poi rifugiato ad Atene, verosimilmente per sfuggire all’ ira funesta delle proscrizioni antoniane), riconoscendone il campione nel cesaricida Bruto, nipote di Catone Uticense, l’irriducibile avversario di Cesare.

Rovine della città di Filippi

Alla  causa repubblicana Orazio dunque si vota con l’entusiasmo dei vent’anni (nel 42 a.C. ne dovrà compiere, per la precisione, ventitré); ricopre il grado di un ufficiale di rango, quello di tribunus militum, ai diretti ordini di Bruto e Cassio; la diserzione, dunque, iconizzata nella famosa immagine dello scudo gettato a terra (relicta non bene parmula), appare  assai improbabile e va considerata piuttosto come la ripresa di un topos della lirica greca (Archiloco ed Alceo, anche loro impegnati nella nascente lotta contro le tirannidi  nella Grecia del VI secolo), a cui Orazio ricorre per rivendicare  l’appartenenza ad una ben precisa tradizione ideale che proseguirà fino a Cremuzio Cordo a Trasea Peto, martiri dei regimi di Tiberio e Nerone. Come sottolinea,  non senza qualche enfasi, Ronald Syme (citato da Luciano Canfora in Giulio Cesare. Il dittatore democratico), «Dalla filosofia greca essi avevano assimilato le nozioni più giuste e liberali sulla dignità della natura umana e sull’origine della società civile. La storia della loro patria aveva insegnato loro a venerare una repubblica libera, virtuosa e trionfante, ad aborrire i criminosi successi di Cesare e di Augusto, e a disprezzare intimamente (…) quei tiranni che adoravano con la più abietta adulazione»

In ogni caso, Orazio  ritorna da Filippi, come dirà egli stesso,  con le «ali tarpate» («decisis pinnis»), poiché, dopo la rotta e la dispersione dell’esercito repubblicano,  avrà davanti a sé un lungo periodo di attesa e incertezza; costretto a vagare fuori dai confini, potrà rientrare in Italia solo nel 41, ma subirà la dura esperienza della declassazione, svolgendo  le mansioni di scriba questorius  ( segretario del Questore) a seguito della confisca di tutti i beni paterni.  Sarà dunque la povertà che, sfacciata, lo spingerà a scrivere versi («paupertas impulit audax/ ut uersus facerem»). 

Nel 38,grazie a Vario e Virgilio, suoi compagni nella scuola epicurea di Sirone, a Napoli, viene presentato a  Mecenate, ricchissimo e potente ministro della cultura e della propaganda. Il primo incontro non sembra promettente: Mecenate, impenetrabile, lo congeda con poche parole, e Orazio, che per il panico e la soggezione era riuscito solamente a balbettare, sarà tenuto ad attendere per  nove mesi (un parto vero e proprio!)   prima di essere accolto nel cerchio magico dei fedelissimi – probabilmente per espiazione per le sue precedenti scelte politiche, e, verosimilmente, per la necessità dei relativi accertamenti. Da questo momento la storia è nota: il sodalizio inscalfibile con Mecenate, il dono della villa in Sabina, a Licenza (mihi angulus ridet), l’amicizia con i compagni e naturalmente con lo stesso Ottaviano,  già suo avversario trionfatore  a Filippi. Nondimeno, anche quando oramai sarà il cantore ufficiale della Roma del principato, conseziente strumento della propaganda di regime (il Carmen saeculare e le Odi romane), l’appartenenza all’entourage augusteo sarà vissuto sempre da Orazio con una sorta di  taciuto disagio, probabilmente dovuto all’ambiguità mai risolta della sua posizione; particolarmente rivelatrice al riguardo, appare l’ode posta non a caso, ma con preciso intento programmatico, come incipit del II libro, dedicata  a quell‘Asinio Pollione, già seguace d Ottaviano e  protettore di Virgilio, che come ancora ci racconta Canfora, nelle sue Historiae minacciava di sconfessare la vulgata creata da Cesare stesso sul primo triumvirato e sulla guerra civile del 49, desacralizzando la figura del padre adottivo del princeps, e rischiando per questo un’aperta rottura con lo stesso Augusto. Una scelta oltremodo audace, se non decisamente avventata, per  qualcuno a cui lo stesso princeps avrebbe poi chiesto di diventare suo segretario personale. Evidente, quindi, la dicotomia irrisoluta- e irrisolta- di Orazio, che se nella finzione poetica può presentare sé stesso come  imbelle e pavido, nella realtà, fingendo di raccomandare cautela a Pollione, incede lui stesso su un cammino di braci invocando la giusta nemesi per i morti di Filippi. Spiega infatti Luciano Canfora:

«Le armi» (arma), che è l’ultima parola della strofe. Esse sono definite drammaticamente «bagnate di sangue ancora inespiato». Una precisazione, quest’ultima («ancora inespiato»), che non sembra proprio esprimere una visione rassicurante sulla effettiva conclusione delle guerre civili.(…)Per Orazio, ancora anni e anni dopo, Filippi è pur sempre il momento in cui «fu spezzata la virtù» («cum fracta virtus»).

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Appare pertanto inverosimile, e piena di un ossequio al limite dell’ironia, la dichiarazione di Ep. II, 2, 47-48, in cui Orazio dichiara di essere stato spinto dal turbine della guerra civile  ad imbracciare , per inesperienza quelle armi incapaci di resistere al potente braccio di Cesare ( «ciuilisque rudem belli tulit aestus in arma/ Caesaris Augusti non responsura lacertis»). Certo, Ottaviano  ha vinto perché ancora una volta, come già fu per Cesare,  la causa vincitrice era piaciuta agli dèi; ma i fantasmi  di Filippi e della morte dei giusti, nella memoria come nella coscienza di Orazio, appaiono lungi dall’essere esorcizzati.


L’incontro di Pavese con Orazio risponde ad un afflato intimo assai più che a motivazioni letterarie esteriori. La lunga dimestichezza con la sua opera, segue un percorso che inizia  sotto la guida di Augusto Monti, professore di lettere al liceo D ‘Azeglio di Torino, e che  lo porta, tra il ’26 e il ’27, a tentarne una traduzione, che si rivelerà preziosissima officina di apprendistato poetico. Monti, fiero liberale antifascista, amico di  Piero Gobetti, può essere considerato il padre nobile di un’intera generazione di intellettuali della resistenza che va da Leone Ginzburg a Massimo Mila a e allo stesso Giulio Einaudi.  Proprio in quegli anni infatti il fascismo compie a Torino le sue spedizioni punitive ai danni dell’ agguerrito socialismo operaio e della fierissima opposizione intellettuale espressa da Gobetti attraverso le riviste Energie nuove e La rivoluzione liberale. Pavese  a tutto questo resta sostanzialmente estraneo, anche quando negli anni dell’università, grazie ad Augusto Monti entra in contatto, oltre che con lo stesso Ginzburg,  con    Vittorio Foa, Tullio Pinelli, Norberto Bobbio, ovvero con il circolo  animatore della resistenza intellettuale e politica della città.


Dopo la laurea, Pavese proseguirà l’opera di Ginzburg succedendogli nella direzione della rivista  La Cultura, fortemente legata al gruppo antifascista di Giustizia e Libertà ; tuttavia, pur da intellettuale impegnato, continuerà a mantenere  una posizione defilata rispetto all’ attivismo politico. Il suo coinvolgimento diretto  avverrà solo per amore di  Tina Pizzardo,«la donna dalla voce rauca», energica  e combattiva militante del Partito comunista. L’essersi prestato come destinatario della corrispondenza indirizzata alla Pizzardo dall’antifascista torinese Bruno Maffi costerà a Pavese il carcere (a Torino e poi a Roma) e  la condanna a tre anni di confino a Brancaleone Calabro. E’ il 1935; quando tornerà a

tina_pizzardoTorino l’anno seguente (la pena gli era stata ridotta in seguito all’accoglimento della sua domanda di grazia), scoprirà che i suoi amici, – Monti, Ginzburg, Massimo Mila- si trovano in carcere e presto sconteranno il confino a loro volta – e che Tina Pizzardo si è felicemente sposata proprio il giorno prima del suo arrivo . Ad alleviare dolore e solitudine saranno l’incontro con Paolo Cinanni, che da studente risveglierà in Pavese l’amore per la letteratura e  lo introdurrà nei circoli del partito comunista, e Giaime Pintor, con il quale stringerà un profondo sodalizio umano e letterario.

Purtroppo, con lo scoppio della guerra civile del ’43, Pavese non potrà festeggiare, come Orazio il ritorno degli amici. Come Orazio anche lui compirà un’altra scelta, rinunciando a combattere e ritirandosi invece sulle colline delle Langhe, a Serralunga di Crea, e poi in un convento a Casale Monferrato. Qui lo raggiungerà, terribile, la notizia della morte di Leone Ginzburg ,avvenuta in seguito alle torture da lui subite nel carcere di Regina Coeli. 

Di questa esperienza della guerra, vissuta colpevolmente in disparte, Pavese racconterà in quel romanzo che è forse il suo esito più alto, La casa in collina  La vicenda, come è noto, è narrata in prima persona da Corrado, professore di liceo a Torino, sfollato dalla città martoriata dai bombardamenti ; ma le vicende di guerra non appaiono rilevanti nell’economia del romanzo, e vengono comunque osservate sempre in un momento successivo rispetto agli eventi. La ragion d’essere del romanzo è infatti essenzialmente una lunga confessione in cui Pavese  non (si) farà sconti, denunciando spietato la paura e gli alibi che lo hanno tenuto lontano dal combattere in prima linea, rimanendo invece su quella collina  che diviene il mito di un altrove protetto ma anche straniato dalla realtà e dai suoi orrori:

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Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non era un luogo tra gli altri,ma un aspetto delle cose, un modo di vivere.(…). Ci salivo la sera come se anch’io fuggissi il soprassalto notturno degli allarmi, e le strade formicolavano di gente, povera gente che sfollava a dormire magari nei prati, portandosi il materasso sulla bicicletta o sulle spalle,Si prendeva la salita, e ciascuno parlava della città condannata, della notte e dei terrori imminenti. Io che vivevo da tempo lassù, li vedevo a poco a poco svoltare e diradarsi, e veniva il momento che salivo ormai solo, tra le siepi e il muretto. Allora camminavo tendendo l’orecchio, levando gli occhi agli alberi familiari, fiutando le cose e la terra. Non avevo tristezze, sapevo che nella notte la città poteva andare tutta in fiamme e la gente morire. I burroni, le ville e i sentieri si sarebbero svegliati al mattino calmi e uguali. 

L’indifferenza e il distacco di Corrado per quanto sta accadendo in una Torino controllata dai  repubblichini e  bombardata dagli alleati  fa della guerra  un evento estraneo e surreale, della cui tragicità resta un’eco soltanto nei discorsi degli sfollati  del coprifuoco. La guerra, anzi, azzerando nell’emergenza collettiva il senso di inadeguatezza, le differenze, i successi personali, e le invidie, fornisce a Corrado un rifugio, un inatteso e provvidenziale alibi per la propria inettitudine esistenziale:

Con la guerra divenne legittimo chiudersi in sé, vivere alla giornata, non rimpiangere più le occasioni perdute. Ma si direbbe che la guerra io l’attendessi da tempo e ci contassi, una guerra così insolita e vasta che, con poca fatica, si poteva accucciarsi e lasciarla infuriare, sul cielo delle città, rincasando in collina. Adesso accadevano cose che il semplice vivere senza lagnarsi, senza quasi parlarne, mi pareva un contegno. Quella specie di sordo rancore in cui s’era conchiusa la mia gioventù, trovò con la guerra una tana e un orizzonte.

In una tra le tante, beate notti solitarie e luminose trascorse sulle  colline da  Corrado assieme al suo inseparabile cane Belbo (dal nome del fiume su cui si partigiani-640affacciava Santo Stefano, il paese di nascita dell’autore), la sua attenzione viene richiamata dai canti dell’osteria Le Fontane. Qui vi è un gruppo di amici che si riuniscono,  tra i quali  c’è Cate, una vecchia fiamma di gioventù di Corrado, che improvvisamente aveva interrotto la loro relazione svanendo apparentemente nel nulla, (e nel cui personaggio si rivela trasparente il ricordo di Tina Pizzardo);  

Riconobbi la voce. Adesso, a pensarci, mi sembra evidente. La riconobbi, e non mi chiesi di chi fosse. Era una voce un poco scabra, provocante, brusca. 

 L’incontro rappresenta per Corrado il momento del redde rationem, del confronto con sé stesso, in cui deve spiegare- ed ammettere- la propria incapacità di schierarsi e di agire. Nei discorsi con Cate e Fonso, un ragazzo di nemmeno diciott’anni. a proposito di come comportarsi nel caso di una nuova chiamata alle armi, (sono i primi di luglio, e gli alleati sono appena sbarcati in Sicilia)   Corrado mostra l’insanabile contraddizione di un animo diviso tra la rabbia e la viltà:

Tu, che dici? Che cosa faresti? – chiese Cate, seria.
Tacquero tutti, e mi guardavano.
– Ammazzare, – dissi. – Levargli la voglia. Continuare la guerra qui in casa. Tanto quelli la testa non la cambiano. Soltanto se sanno che appena si muovono scoppia una bomba, resteranno tranquilli.
Fonso ghignava e stava per interrompere.
Tu lo faresti? – disse Cate.
– No, – risposi. – Ci sono negato.

Ad inchiodare l’ipocrisia e i sofismi di Corrado  c’è poi il  j’accuse della gente semplice come la nonna di Cate, che nella sua saggezza vede con spaventosa chiarezza le cose, chiamandole con il loro nome senza tabù e ipocrisie:

Per chi ha la pagnotta e può stare in collina, la guerra è un piacere. Sono la gente come voi che ha portato la guerra -. Lo disse tranquilla,senz’ombra di rancore, come fossi suo figlio. (…)Io mi chiesi smarrito se sapeva quanto giusto e quanto a fondo mi avesse toccato. 

L’estate trascorre per Corrado in una sorta di attesa, tra gli incontri con Cate e le notizie dei bombardamenti , sempre più furiosi, che colpiscono Torino. L8 settembre sorprende Corrado e i suoi amici con un sussulto di speranza per la fine della guerra, che si trasforma subito nella più atroce delusione. Il peggio doveva ancora venire, i tedeschi da alleati si sono trasformati in nemici ed hanno occupato Torino, assieme ai fascisti repubblichini, inferociti dalla sconfitta:

La salvezza non venne. (…). Torino era stata occupata senza lotta, come l’acqua sommerge un villaggio; tedeschi ossuti e verdi come ramarri presidiavano la stazione, le caserme; […] La guerra infuriava lontano, metodica e inutile. Noi eravamo ricaduti, e questa volta senza scampo, nelle mani di prima, fatte adesso più esperte e più sporche di sangue.

I tedeschi, infatti,  non indugeranno  nel mettere in atto rastrellamenti e rappresaglie, cercando ovviamente per prima cosa di intercettare e smantellare la rete della resistenza; nessun luogo, dunque, nemmeno la collina, è più sicuro, ed una mattina Corrado nel suo cammino verso le Fontane vede da lontano le macchine dei soldati tedeschi che picchiano e arrestano Cate e i suoi compagni. straniato, assiste impassibile agli eventi:

Per qualche secondo non mi mossi; fissavo la conca, il cielo terso, il gruppetto laggiù; non pensavo a me stesso, non ebbi paura. Mi sbalordì il modo inatteso che hanno le cose di accadere; avevo visto tante volte quella casa dall’alto, mi ero pensato in ogni sorta di pericoli, ma una scena così – vista dal cielo nel mattino – non l’avevo preveduta.

Ma anche l’indifferenza di Corrado viene scossa da una paura animale quando, tornato alla casa in collina, viene a sapere che i tedeschi erano veuti a cercare anche lui e che era salvo solo per un caso fortuito, per la prontezza di spirito della padrona di casa che  aveva indicato ai tedeschi l’indirizzo della scuola di Torino in cui Corrado lavorava, dicendo di andare lì a cercarlo:

Fu più che una nausea, mi si disciolsero le gambe. Dissi qualcosa, non uscì la voce – (…)Oggi ancora mi chiedo perché quei tedeschi non mi aspettarono alla villa mandando qualcuno a cercarmi a Torino.Devo a questo se sono ancora libero,(…).Perché la salvezza sia toccata a me e non a Gallo, non a Tono, non a Cate, non so. Forse perché devo soffrire dell’altro? Perché sono il più inutile e non merito nulla, nemmeno un castigo? (…)  esser vivo per caso, quando tanti migliori di me sono morti, non mi soddisfò e non mi basta.A volte, dopo avere ascoltato l’inutile radio, guardando dal vetro le vigne deserte penso che vivere per caso non è vivere. E mi chiedo se sono davvero scampato.

La guerra, infatti, come la vita, non permette ad alcuno di rimanerne indenne; la fuga, l’estraneità lasciano dentro segni non meno profondi dell’accettazione del rischio e dello scontro. La neutralità non è più sinonimo di innocenza ma di ignavia, di incapacità di prendere una posizione, e può dannare l’animo come i crimini peggiori; è l’amara conclusione a cui giunge Corrado alla fine del romanzo, nei luoghi dell’infanzia che sono oramai luoghi d’esilio, resi irriconoscibili dall’orrore dei morti, dal sangue versato : «È qui che la guerra mi ha preso, e mi prende ogni giorno.(..)Verrà il giorno che nessuno sarà fuori della guerra – né i vigliacchi, né i tristi, né i soli».

La vista dei cadaveri dei nemici  ha infatti  «svegliato» Corrado dal suo torpore fisico e morale,  materializzando improvvisamente la prospettiva della morte come una realtà assai prossima. Il sangue sparso dei morti, immagine che nel romanzo ricorre ossessivamente, resta per Pavese, come per Orazio, invendicato, e necessita, per essere placato, di un sacrificio di espiazione. Nella sua ultima raccolta, non a caso intitolata La terra e la morte, l’orrore di queste morti diventerà, letteralmente, indicibile, aggravato dal tormento della fuga e di un rifiuto equivalente, alla fine, quasi ad una perdita di identità:

«Tu non sai le colline/ dove si è sparso il sangue/ Tutti quanti fuggimmo, tutti quanti gettammo/ l’arma ed il nome». 

E forse proprio per l’impossibilità di condividere  il suo «vecchio rimorso» con chi potesse davvero comprenderlo, e magari chissà, prospettargli una possibile (auto)assoluzione, che Pavese deciderà di pagare, tardivamente, il proprio tributo a quella guerra a cui non era scampato, chiedendo, non a caso, perdono a tutti e pregando di non fare troppi pettegolezzi su quella sua muta, volontaria, discesa nel gorgo.

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RISORSE E NOTE A MARGINE

-Corsivi, enfasi grafiche e link presenti  nei testi e nelle citazioni sono miei;

-Come tutti avrete certo notato, il titolo del post è una scoperta allusione a Inf. III, 60,  in cui Dante stigmatizza  l’abdicazione di Celestino V al soglio pontificio nel canto dedicato all’ignavia ed ai suoi guasti;

-Per un’interpretazione alternativa – e complementare alla vulgata– dell’espressione relicta non bene parmula si legga il contributo di Giuliano PisaniOrazio, Filippi  e il « relicta non bene parmula», che sulla base dell’analisi linguistica del verbo relinquere («lasciare indietro» piuttosto che«abbandonare, gettare via») e del termine parmula, pccolo scudo in uso alla cavalleria e non alla fanteria, di cui Orazio invece come tribunus militum faceva parte, intende l’espressione come la scelta esiziale, da parte di Bruto, di non far intervenire la cavalleria nello scontro campale, coerentemente con  racconti tramandatici da Plutarco e Cassio Dione;

-Le scelte stilistiche non appaiono sempre coerenti né congruenti, oscillando tra una patina arcaizzante ed un imperativo di attualizzazione; tuttavia, come sottolinea Giovanni Barberi Squarotti, nella sua introduzione al volume Le Odi di Quinto Orazio Flacco tradotte da Cesare Pavese:

il metodo appare già indirizzato verso i princìpi che risultano alla base delle versioni degli autori greci (…) ,cioè verso il rinnovamento e lo svecchiamento delle forme convenzionali della traduzione .

Il testo integrale dell’introduzione di Barberi- Squarotti e delle Odi di Orazio tradotte da Pavese si può trovare qui ;

-Alla vita e all’opera di Pavese sono dedicati contributi,spesso notevoli, di diversi blog di letteratura: si segnalano qui, rispettivamente, le pagine dedicate a Pavese da Pina Bertoli, Athenae Noctua, e Simone Gelmini, il quale, sul blog a più voci Free Man in Real World dedica a La casa in collina  un bellissimo e sentito post incentrato appunto al tema dell’impotenza dell’intellettuale, nel quale ripropone per intero l’ultimo capitolo del romanzo;

– Nella sezione D’Autore della rivista Il Libraio, la recensione  de La casa in collina  a firma di Demetrio Paolin, vincitore del Premio Strega 2017, che riconosce la centralità di questo romanzo per la sua formazione. Nel segno di Pavese è intitolato e composto anche Non fate troppi pettegolezzi, che racconta del rapporto dell’autore con il suo pantheon di scrittori piemontesi (oltre a Pavese vi si trovano Salgari, Primo Levi, Franco Lucentini)

-Sebbene a rigore estranei rispetto all’argomento del post, crediamo ugualmente  utile segnalare qui  l’articolo dell’autrice francese Annie Ernaux dedicato alla memoria di Pavese  scrittore proustiano e il  volume   sul rapporto tra Pavese e Nietzsche a cura di Francesca Belviso (Titolo in italiano Amor fati.  Pavese all’ombra di Nietzsche. La Volontà di potenza nella traduzione di Cesare Pavese (Torino, Aragno, 2015); sulla pubblicazione del volume, oltre al contributo di Lorenzo Mondo su La Stampa,è doveroso ricordare l l’articolo di Tahar Ben Jelloun, che ne saluta con entusiasmo la pubblicazione (e qui vorrei aggiungere: nemo propheta in patria, o quasi ma sarebbe discorso troppo lungo e vieto, che mi e vi risparmio);

-Il contributo di Dante Maffia su Pavese traduttore di Orazio sul blog La presenza di Èrato

-Una lettura de La casa in collina a firma dello scrittore Demetrio Paolin sulla rivistaIl Libraio;

-Per approfondire la conoscenza del Pavese classicista, segnalo qui il contributo di Alberto Comparini, Il mestiere di leggere i Greci. La cultura greca di Pavese nei «Dialoghi con Leucò»;

-Il video della puntata della produzione Rai  I grandi della letteratura italiana dedicato a Cesare Pavese, curato e condotto da Edoardo Camurri:

 

 

 

12 comments

  1. Splendido articolo, che poi definirlo tale è anche limitativo, perché i tuoi sono più dei saggi che non degli articoli, sempre curati con perizia e grande passione. La casa in collina è uno dei pochi libri di Pavese che devo ancora leggere, e sarà davvero piacevole affrontarlo dopo questa analisi così lucida e approfondita, che mi ha preparato ben bene il terreno… Adesso però, al di là dei singoli casi e di tutto ciò che è stato scritto sull’argomento, mi viene anche da chiedermi se il fatto di avere paura – che come sappiamo può capitare a chiunque di noi, anche inaspettatamente e soprattutto nelle situazioni più rischiose – debba per forza essere inteso (e vissuto) come una colpa… La paura, lo sappiamo, è capace di tagliare le gambe (nel vero senso del termine), e quindi di impedire, in molti casi, una chiara e giusta visione delle cose. I sentimenti per gli altri possono offuscarsi e le proprie azioni risultare incoerenti, se non contradditorie. Il senso di smarrimento interiore rende difficoltoso anche solo “sentire” cosa sia giusto o non giusto fare in un dato momento, o meglio permette di capirlo non subito ma, appunto, quando magari è troppo tardi. E quindi mi chiedo se sia giusto, per questo, condannare – o condannarsi – ad un senso di colpa perenne, ad un’infelicità che non conosce tregua.

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    1. @Alessandra carissima,
      capisco che il titolo del post, nella foga della ricerca dell’allusione dantesca, possa apparire di per sé giudicante; in realtà l’intenzione era piuttosto quella di un’analisi e un resoconto di due vicende esistenziali poste a confronto con il più terribile dei dilemmi, la guerra civile. Orazio ha combattuto ma ha scelto poi, letteralmente, di salire sul carro del vincitore in nome della gloria poetica e dei vantaggi materiali, anche se non ha mai potuto dimenticare la virtù – e la vita- spezzata dei suoi compagni repubblicani; Pavese ha invece scelto di non combattere per non versare il sangue degli altri, né il proprio, ed ugualmente è stato poi perseguitato per tutta la vita dai rimorsi e dai rimpianti di quella scelta. La questione non è dunque legata al giudizio sulla rinnegazione e sul rifiuto(la paura mangia l’anima, come sappiamo tutti senza eccezione), quanto piuttosto alla consapevolezza delle conseguenze di ogni scelta mancata o sbagliata e all’eventualità di non potercene mai liberare.
      Un caro saluto e grazie come sempre

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  2. Cara Valeria, solo per precisare che non ho avvertito nulla di giudicante nelle tue parole, né dalla scelta del titolo; ho anzi apprezzato il motivo trainante di questa indagine, così come il confronto tra le due epoche/vicende diverse. Le mie erano solo delle riflessioni in più, potrei dire estese in modo generalizzato, come spesso mi capita di fare quando vengo presa da una lettura che, proprio a causa dell’importanza dei temi trattati, e dell’intensità con cui li espone, mi costringe ad andare “oltre” con il pensiero. Ciao, e grazie ancora per questa interessante analisi.

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    1. @Alessandra
      Carissima,
      il motivo recondito per cui è nato questo asterismo (pubblicato adesso dopo una lunga, lunghissima genesi, che certamente non troppo gli ha giovato; ma questa è altra questione) è il tentativo di rispondere ad una domanda, alla domanda, cioè: che cosa faremmo se capitasse a noi, domanda non così tanto peregrina se si considera l’epoca che stiamo attraversando e i rischi terribili a cui tutti, più o meno consapevolmente, siamo esposti. Nonostante questo sia un post sostanzialmente “al maschile”, mi capita di pensare spesso alle donne della nostra Resistenza (sono stata infatti felice di avere l’occasione di ricordare Tina Pizzardo), chiedendomi se avrei avuto lo stesso coraggio, se sarei stata disposta allo stesso sacrificio. Posso dire di non aver trovato la risposta, e di sperare di non doverla trovare mai.
      Un abbraccio

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  3. Quali acque hai movimentato, carissima Dragoval, con questo tuo saggio, splendido come sempre e fecondo ! Quanti temi vi si intersecano: le riflessioni sui due autori, quelle su di noi, quelle sul presente.
    Mica facile sistemare il bandolo nella nostra mente : facile- forse- criticare Orazio e Pavese ( ma chi siamo noi per farlo?) e usare avventatamente la parola ignavia, ma sarebbe un giudizio superficiale. E dunque? Abbiamo letto ( e riletto) il tuo scritto cristallino, alcuni approfondimenti che hai indicato e restiamo turbati. E’ vero ciò che scrive Alessandra sulla paura che non si riesce a vincere perché non tutti siam cuor di leone , ma è anche vero ciò che scrivi tu : come ci comporteremmo ( o come ci saremmo comportati noi) al momento della scelta ?
    E’ una domanda che mi segue sempre, quando ascolto facili condanne dei tempi passati ( e poichè mia madre, assai giovane, non imbracciò le armi ma le traportò avanti e indietro, nascoste in borse piene di patate, mi chiedo ancora di più cosa avrei fatto io). Dovrei anche chiedermi cosa faccio io oggi in cui la guerra è lontana e quella vicina usa le armi dell’ invettiva, in cui le scelte politiche nascondono quel sangue che Pavese vedeva.
    Fenoglio e Pavese : due estremi, due fari. ( “Partì verso le somme colline, la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny ”. No, ci sono negato”, Cesare Pavese, La casa in collina ). Grandissimo è l’ amore intellettuale verso entrambi. Sospendo, con ignavia, il giudizio anche su Orazio, ma forse più che giudicare gli altri è bene che giudichiamo noi stessi.
    Grazie, Dragoval : hai messo in movimento pensieri, dubbi, rimuginii. Hai messo in azione il pensiero… Un abbraccio .

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    1. Ciao Renza. Mi piacerebbe poter leggere qui, sulle bellissime pagine di Asterismi, un articolo dedicato a Beppe Fenoglio. Magari anche un parallelo tra Pavese e Fenoglio, perché no?, sempre che all’autrice del blog venga giustamente la voglia, nonché il tempo e l’ispirazione 😉

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      1. @Alessandra
        Fenoglio, scrittore meraviglioso, la cui vicenda umana e artistica rispetto a quella di Pavese, è stata per molti aspetti consonante e per altri assolutamente antitetica.Ho letto le sue opere oltre vent’anni fa, ma ne ricordo bene la forza e la tempra, oltre che la qualità sublime della scrittura. Spero mi si presenti presto l’occasione di riparlarne.
        Un abbraccio e grazie 🙂

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    2. @Renza
      Carissima Renza,
      innanzitutto un ringraziamento speciale non solo per la tua presenza, sempre carissima e gradita, ma per aver voluto condividere con noi la memoria di tua madre, a cui va il nostro tributo di rispetto e gratitudine, poiché a lei e ad altre donne coraggiose dobbiamo-anche- l’essere nate e vissute in una repubblica democratica (su quanto poi questa venreabile formula della nostra Costituzione appaia oggi amaramente inattuale non è il caso qui di soffermarsi).
      Continuando a ripensare, invece, alle tue parole, come a quelle di Alessandra, sulla necessità di sospendere, anzi di evitare sommari giudizi di merito sulle vicende umane dei due poeti di cui si parla nelle righe qui sopra, credo di poter ricorrere come sintesi perfetta alle parole di Zvetan Todorov, nel suo Memoria del male, tentazione del bene:

      Ogni azione merita un giudizio distinto. Gli attori di queste azioni, in compenso, non sono separati da abissi. E non possiamo neppure consolarci dicendoci che noi stessi non abbiamo fatto nulla di male. Siamo stati tutti presenti durante il compimento del male e non abbiamo saputo impedirlo. Abbiamo stigmatizzato i tedeschi che badavano tranquillamente alle loro occupazioni quotidiane ai confini dei campi di concentramento; ma, a nostro modo, «abitiamo tutti il villaggio adiacente, […) e che cosa importa se il resto del mondo è sempre un immenso campo di morte lenta» . Ci sono gradi nella sofferenza; resta il fatto che «siamo tutti sempre colpevoli di non assistenza alle persone in pericolo»

      Nel testo Todorov sta citando Romain Gary (a lui è dedicato il capitolo da cui è tratto il brano),che di questa sintesi è stato esempio vivente, lui eroe di guerra che di eroismo nei suoi romanzi non ha mai voluto parlare:

      Se si tiene presente che, nei giorni in cui non scrive, l’autore partecipa attivamente alla guerra, si può essere sorpresi dall’assenza di spirito eroicizzante come di odio per i nemici; l’autentico nemico di Gary sembra già essere l’atteggiamento manicheo.
      Lo dirà trentacinque anni più tardi, negli “Aquiloni”: «Il bianco e il nero, se ne ha abbastanza. Il grigio, c’è solo questo di umano»

      Una sospensione, o meglio un’impossibilità del giudizio su cui ci aveva già ammoniti Primo Levi; ma se è vero che il giudizio deve essere sospeso, non dovrebbe invece esserlo la nostra riflessione, un’azione del pensiero , come tu felicemente dici, che riporti queste vicende, e queste scelte, nella concretezza delle nostre esistenze.
      Un abbraccio affettuoso e ancora grazie

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  4. Eccomi di nuovo qui, cara Dragoval, per una palinodia. Ho riflettuto molto sul problema da te posto con il tuo perfetto saggio e sulla mia risposta. Dicevo, più o meno chi sono io per giudicare? e invece sbagliavo, il giudizio è azione giusta e, direi, obbligata, come la tua risposta, ha elegantemente e accuratamente dimostrato. Il giudizio- ci hanno insegnato i filosofi- è fondamentale, per capire (e per prendere parte, aggiungo io) . Avevo identificato il giudizio con la riprovazione morale, da evitare, a favore dell’ attitudine all’ analisi dei fatti, delle conseguenze. L’ attitudine all’ azione del pensiero che non si dà tregua ed esamina , sviscera fino a che non prende parte .
    Tutto qui. Mi fa piacere ritornare in questa stanza, in cui- come in altre stanze a noi note- è per me uno star di casa ( avrebbe detto Fabrizia Ramondino, scrittrice indimenticata), anche per un saluto e un abbraccio augurale – non solo per la Pasqua😉-

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    1. @Renza
      Cara Renza,
      in realtà anch’io riflettevo, per così dire, in senso contrario, pensando a molti intellettuali dichiaratamente antifascisti- o antinazisti- della prima ora che pure non parteciparono in maniera propriamente attiva alla resistenza ma che non per questo ricoprirono un ruolo secondario negli eventi che precedettero e seguirono la liberazione da parte alleata. Per parte tedesca pensavo soprattutto ad Hans Fallada, che pur odiando il regime nazista e subendo da questo feroci persecuzioni che culmineranno, nel’44, nell’internamento nel manicomio criminale di Neustrelitz, ha sempre consapevolmente scelto di non abbandonare il proprio paese, a differenza di molte altre figure di intellettuali, come i Mann, che avevano invece scelto la via dell’esilio- cercando la salvezza, certo, ma anche prendendo fisicamente le distanze da un paese a cui non potevano più appartenere. Come ricorda Mario Rubino nella bella postfazione al volume Sellerio che racchiude gli scritti in carcere di Fallada, di cui aveva già parlato qui la nostra Gabrilu, Fallada sentirà di dover giustificare la propria scelta, e con quali commoventi- e semplic- motivazioni:

      Mi si è fatto carico e mi si è rinfacciato di non aver tratto le mie conseguenze da questi atteggiamenti ostili e di non aver lasciato la Germania come altri fuoriusciti.Non mi mancarono generose proposte.(…)E ancora una volta, malgrado tutte le mie brutte esperienze a partire dal ’33, dissi di “no”; ancora una volta, ostacolato nella mia produzione letteraria, continuamente osteggiato, trattato come un cittadino di seconda classe, minacciato dall’ombra imminente di una guerra inevitabile, dissi di “no”;preferii esporre me, mia moglie e i miei figli a tutti i pericoli, piuttosto che andar via dalla patria, perché sono un tedesco, lo dico ancora oggi con orgoglio e tristezza, io amo la Germania, non vorrei vivere e lavorare in nessun’altra parte del mondo che in Germania.

      Fallada, dunque, rivendica il diritto a rimanere nel proprio paese, un paese amato anche se stravolto dalla follia nazista, pur rischiando che la sua scelta venisse interpretata nel segno dell’ambiguità o dell’inettitudine; scriverà, però, il grande romanzo della -impossibile- resistenza tedesca, Ognuno muore solo, tratto da una storia realmente accaduta,che come Pavese – il paragone mi sembra sia legittimo- rende omaggio a coloro che la resistenza la praticarono attivamente, o almeno provarono a farlo, ovviamente a prezzo della vita.

      Tornando poi alle vicende e ai personaggi di casa nostra, mi fa piacere ricordare oggi, alla vigilia dell’anniversario della nostra Liberazione, Piero Calamandrei, che pure appartenente ad un gruppo di amici e sodali costituente il fiore della resistenza intellettuale al fascismo (Pancrazi, Momigliano, i fratelli Rosselli, Benedetto Croce) sceglie comunque, in maniera sofferta, di giurare nel’31 fedeltà al regime per non lasciare il proprio posto di combattimento (sono parole dello stesso Calamandrei)e per continuare ad opporre le idee di libertà e autonomia critica che fungessero da argine al delirio della propaganda fascista. Certo, si opponevano parole e pensieri ai bastoni, come lo stesso Calamdrei avrà modo di annotare; quegli stessi “bastoni” che, il 10 gugno 1937, uccidono Carlo e Nello Rosselli esuli a Parigi, fondatori e e attivisti di Giustizia e Libertà; il colpo, per Calamndrei, sarà non meno terribile di quello ricevuto da Pavese alla notizia della morte di Leone Ginzburg. Eppure Calamandrei, che pure per età e vocazione non si sente di abbracciare le armi, sarà una tra le menti più fulgide che scriveranno la Costituzione. Una scelta diversa,dunque, rispetto a quella di Pavese che invece soccomberà sotto il peso del rimorso.

      Il tutto per dire che la partecipazione attiva alla Resistenza va ammirata e omaggiata, perché ha contribuito a fondare uno Stato, il nostro, gravemente imperfetto ma libero e democratico; ma anche altre scelte più dubbie, e sofferte, e forse solo apparentemente meno coraggiose meritano comunque il rispetto per le vicende terribili davanti alle quali sono, nel bene e nel male, umanamente, maturate.

      Un abbraccio e buon 25 Aprile

      Ps doveroso: quanto ho scritto qui su Piero Calamandrei l’ho appreso seguendo lo spettacolo di Tomaso Montanari L’aria della libertà: l’Italia di Piero Calamandrei, di cui propongo qui sotto il trailer:

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