Month: Maggio 2023

Dalla parte di lei. Note a margine sull’antifascismo al femminile

Questo post è stato pensato in dialogo con i due post recentemente pubblicati su NonSoloProust e dedicati alla Resistenza delle donne di Benedetta Tobagi e al Diario partigiano di Ada Gobetti, da cui emergono gli ostacoli di ordine evidentemente culturale che hanno impedito fino ad oggi di riconoscere l’effettivo contributo  e la peculiarità dell’impegno femminile nell’opposizione al nazifascismo. A sperimentare  in prima persona la frustrazione di questo mancato riconoscimento  è – anche – Alba de Céspedes,che nella Resistenza fu impegnata  in prima persona e che retrospettivamente compie una disamina impietosa delle dinamiche maschiliste e patriarcali resistenti, quale ironia,anche nei gruppi partigiani. De Céspedes , che con un’espressione forse oramai desueta può certamente definirsi una donna di temperamento, è già compromessa con il regime fascista a causa della pubblicazione di Nessuno torna indietro, romanzo che sovverte dal profondo i canoni della femminilità disegnati dal regime fascista, ma che riesce ad eludere la censura grazie al notevole successo di critica e pubblico, nonché dell’ autorevolezza dei recensori Sem Benelli e Francesco Flora, (entrambi, per inciso, firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascistiNella prefazione al romanzo Dalla parte di lei  – sorprendente opera di indagine sulla condizione femminile, nei suoi aspetti anche più oscuri e reconditi, che si intreccia con le vicende storiche legate alloccupazione tedesca di Roma, all’armistizio, alla formazione e all’azione delle diverse anime  della  Resistenza romana -, l’autrice dichiara espressamente come i suoi ideali  romantici legati ad una concezione eroica e pura della Resistenza fossero stati ben presto disattesi, e manifesta la propria insofferenza per lo stato di minorità in cui  si pretendeva che le donne rimanessero avvilite  nonostante il «supremo sacrificio compiuto da donne combattenti sia antifasciste che fasciste»:

Questo libro fu anche una mia presa di coscienza circa l’entusiasmo che mi aveva ingenuamente guidata nel combattimento per la libertà e nel convincimento che fosse possibile vivere l’amore come un’avventura senza limiti e senza ambiguità. Già in quegli anni, tra il 1946 ed il 1949, queste mie convinzioni cominciavano a vacillare. […]. L’esperienza della guerra e dell’impegno politico avevano resi ancor più intollerabili tali vincoli.  L’eguaglianza della donna e dell’uomo di fronte al pericolo e alla morte era ormai divenuta palese per me. Il passaggio delle linee del fronte sul fiume Sangroaveva rafforzato irrevocabilmente tale convinzione. Sapevo ormai che un uomo può tremare e una donna restare impavida durante un bombardamento di artiglieria.

L’Italia dell’immediato dopoguerra è ovviamente un immenso cumulo di macerie anche morali, su cui bisogna ricostruire una nazione attraverso il senso di aggregazione ed appartenenza.; la fretta, la necessità di accantonare gli odi e il desiderio di vendetta, ancora fumanti come le rovine dei bombardamenti, devono necessariamente condurre ad un compromesso, ad un superamento delle rivalità e delle differenze di parte. Ma questa operazione non è indolore, e soprattutto, non consente l’elaborazione del trauma indicibile della guerra civile, ma solo la sua  provvisoria rimozione attraverso il ritorno ad una normalità che tale oramai non poteva più essere , rivelandosi al contrario nel proprio desolante squallore:

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D’altronde l’insofferenza dei vincoli che rattenevano le donne dall’esprimere la loro volontà di azione, pesava vieppiù su di me. Tale insofferenza si era già espressa nel mio primo romanzo Nessuno torna indietro, ma non avevo più ventisette anni come all’epoca della pubblicazione di esso. L’esperienza della guerra e dell’impegno politico avevano resi ancor più intollerabili tali vincoli. L’eguaglianza della donna e dell’uomo di fronte al pericolo e alla morte era ormai divenuta palese per me.
Il passaggio delle linee del fronte sul fiume Sangro aveva rafforzato irrevocabilmente tale convinzione. Sapevo ormai che un uomo può tremare e una donna restare impavida durante un bombardamento di artiglieria. In seguito la documentazione storica mi avrebbe reso edotta del supremo sacrificio compiuto da donne combattenti sia antifasciste che fasciste.
Mi esasperava dunque con il ritorno alla normalità ritrovarmi nella condizione di subalterna che la società mi attribuiva in quanto donna.
Soltanto una donna poteva capire in quel tempo quanto fosse irritante sentirsi sotto tutela.


Roma, 16 luglio 1943. I bombardieri delle forze alleate colpiscono il quartiere San Lorenzo. E’ il primo bombardamento sulla capitale (e purtroppo non sarà l’unico): l’attacco avviene in pieno giorno, la città è totalmente colta di sorpresa, le abitazioni crollano, le perdite umane sono numerose,  La descrizione degli eventi ci viene così restituita dalla voce della protagonista del romanzo, che si sofferma in particolare, oltre che sull’ evidente stato di choc dei sopravvissuti,  sulle vittime animali, in particolare i cavalli di una scuderia,  vera strage degli innocenti della follia incomprensibile piovuta dal cielo :

Durante il bombardamento io ero in una vecchia cantina di via Venti Settembre. Le altre donne avevano molta paura e gridavano, chiamavano la Madonna. Io avevo molta paura. Due giorni dopo andai (…) a vedere il quartiere bombardato. Eravamo sul piazzale del Verano quando ci raggiunse l’odore dei cavalli morti: era un odore così acuto che dovemmo portare il fazzoletto al viso, e Tomaso mi prese sottobraccio. Una scuderia era stata colpita in pieno, ci dissero, quella dove stallavano i cavalli neri dei trasporti funebri. Chi era giunto per i soccorsi aveva udito i nitriti alti, disperati. Le voci degli uomini sepolti vivi nelle cantine non si udivano, invece. Durante l’opera di salvataggio sempre i cavalli avevano nitrito e quando, infine, tacquero, certo anche l’ultimo grido umano si era spento sotto le macerie.
Il quartiere di San Lorenzo era deserto. Sui fianchi delle case, negli squarci, pendevano materassi, indumenti, ritratti, e il silenzio pesava nei cortili soffocati di calcinacci e polvere. Dappertutto si sentiva quell’odore dolciastro e nauseabondo(…). Incontrammo un vecchio che portava in mano un secchio da riempire alla fontana. «Ero appena uscito in istrada» diceva «e la casa mi è crollata dietro.» 

Per quanto sconvolta, la città prova a reagire. Si attendono le notizie dalla radio, appare evidente che l’evento non può lasciare le cose immutate, che qualche radicale cambiamento si stia ormai preparando. Tutta la città, in ansia, è in attesa di notizie. Il fascismo, la “voce arrogante” del Duce, tuona e minaccia rappresaglia e vendetta contro i traditori; ma è un regime al suo epilogo. Pochissimi giorni dopo, la notte del 25 luglio, avverrà la caduta del Gran Consiglio del Fascismo e Mussolini sarà deposto dal proprio ruolo di capo del Governo. Gli antifascisti romani, molti dei quali ovviamente fino a quel momento non dichiarati come tali ma tra di loro in collegamento, considerano oramai imminente la liberazione della città. Dalle linee impazzite dei telefoni, o tramite il semplice passaparola, si insiste con il monito: “ Ascoltate la musica”, questa volta non soltanto riferito alle trasmissioni clandestine di Radio Londra, ma anche all’EIAR, l’emittente radiofonica ufficiale, da cui si attende con il fiato sospeso la notizia insperabile:

A quell’ora ogni sera, mentre chiudevo la finestra, vedevo le donne del casamento dirimpetto chiudere la finestra benché il caldo fosse soffocante; per un attimo ci guardavamo. Ci guardammo con maggiore intensità, quella sera. (…) accostando l’orecchio alla tela che nascondeva l’altoparlante, udimmo bussare cupamente come per dirci di avere fiducia, attendere.
Ma noi sapevamo che quella sera
il conforto della stazione proibita non ci sarebbe bastato più. (…) volontariamente tornammo a consegnarci alla voce arrogante che per anni avevamo ascoltata, zitti, aspettando[…] La nostra rivolta si esprimeva proprio in quel silenzio, in quel modo paziente di aspettare(…) Fu in quel momento che la voce nuova parlò: senza arroganza, dolorosa, grave. (…) io ero sola di fronte a questa voce saggia e modesta: e, sebbene contenta di non aver più paura, scoppiai a piangere, umiliata che la voce arrogante fosse stata proprio la voce del mio tempo e della mia età.

Le voci, nella realtà storica, sono due,  quelle del re  Vittorio Emanuele III  e  di Pietro Badoglio, , il  maresciallo d’Italia  succeduto a Mussolini alla guida del governo, che nella notte del 25 luglio ai microfoni dell’EIAR  informa i cittadini che «la guerra continua», e che l’italia avrebbe «tenuto fede alla parola data» agli alleati (erano in corso le trattative per il futuro armistizio), proclamando «lo stato d’assedio e l’ordine di «sparare a vista contro i dimostranti» per limitare i disordini , non esplicitando la brutale verità del fatto che da quel momento la lotta contro il nemico si sarebbe trasformata in conflitto civile. La popolazione romana, tuttavia, esulta per la caduta del fascismo ed anche anche se il peggio, per la capitale, come è noto, era di là da venire (dal rastrellamento tedesco al Portico d’Ottavia, all’attentato di via Rasella e al conseguente massacro delle Fosse Ardeatine), i cittadini tornano per breve tempo a respirare- e di nuovo, a parlare e ad incontrarsi come da tempo non era possibile:

E attorno a noi la gente passava lesta. Alcune persone si fermarono in crocchio a parlare, poi tutti si aggrupparono presso una bottega dalla quale veniva il segnale della radio. Io avevo paura quando la gente si affollava per ascoltare la radio; era sempre un segno funesto. In Abruzzo erano tutti dispersi nelle campagne, qui indugiavano nelle strade ancora chiare d’estate; erano nelle case, a tavola, alcuni lavoravano, o erano innamorati, sembravano indifferenti, difesi, eppure dovevano subito interrompere ogni altra cura e accorrere docili ad ascoltare ciò che diceva la radio. Non era più una miracolosa invenzione che trasmetteva la musica o i richiami per salvare le navi. Era una inesorabile potenza: il corso della nostra vita dipendeva in gran parte da ciò che diceva la radio. «Giungemmo appena in tempo per udire le ultime parole e poi restammo zitti, pallidi, mentre qualche soldato lanciava in aria il berretto rallegrandosi che fosse stato firmato l’armistizio.

Da quel momento inizia per la protagonista il coinvolgimento attivo  nella Resitenza., «il lungo giorno nel quale io non ho mai potuto riposare».[…] .Il romanzo di De Céspedes descrive la partecipazione della protagonista di un’azione partigiana realizzata dalle delle “staffette” femminili, paradossalmente insospettabili a causa degli stereotipi del patriarcato,  che trasportano sulle loro biciclette manifesti, giornali, armi nelle borse della verdura che andavano a procurarsi non senza fatica fuori dalle mura cittadine – e che subivano immancabilmente le perquisizioni dei soldati tedeschi.Dal racconto emerge  con fin troppa chiarezza la disparità di trattamento riservata alle donne, il cui contributo, prezioso ed indispensabile, viene spesso concepito dacomandanti partigiani come deprivato di qualsiasi connotazione di eroismo, e nelle intenzioni confinato il più possibile nell’ambito delle attività domestiche:

All’andata io avevo l’impressione di fare un gita in campagna; Affidate a quel sibilo, simile a un ronzìo lieve di officina, tutte pedalavamo insieme, senza guardarci. […]. Guardavo le nuche delle donne come quelle delle compagne di scuola, e avrei voluto accarezzarle con tenerezza: alcune di queste donne si logoravano nella paziente ricerca del cibo per i figli, nella ricerca del danaro necessario a mantenerli; lavoravano tutte, dacché gli uomini erano lontani, e alcune di esse erano andate a rubare nei vagoni merci colpiti dai bombardamenti, altre andavano a letto coi soldati. Poiché tutto si poteva chiedere alle donne, non c’era limite: Tullio [il comandante del gruppo a cui appartengono la protagonista e suo marito,ndr] chiedeva di preparare un letto, lavare la biancheria di una compagna che aveva bisogno di rifugiarsi, chiedeva di far cucina a tutte le ore, per tutte le persone che passavano, bisognava servirle tutte, per tutte trovare cibo e talvolta danaro(…)e poi domandava se sapessimo andare in bicicletta. Agli uomini chiedeva solamente di andare in bicicletta.

Nel romanzo viene dato ampio spazio proprio alla  coraggiosa resistenza della cittadinanza in undici mesi di occupazione che non risparmiano nulla alla popolazione civile in termini di arresti, torture, rappresaglie e deportazioni, ma che pure per contro determinano, da parte dei civili, quegli atti di coraggio ed abnegazione che James Hillman definisce il «sublime della guerra»:

In quel tempo la città era piena di persone che non avrebbero mai avuto la possibilità di divenire eroi: eppure, tra noi tutti, circolava una solidarietà così profonda che spesso raggiungeva l’eroismo, benché attraverso la paura. Perciò, forse, c’intendevamo facilmente: bastava un cenno, un’occhiata. Le case si aprivano ai tribolati, accogliendoli nella miseria che era in esse, come se finalmente ci fossimo tutti risolti a rivelarci. Sì, veramente fu un’epoca che rese migliori anche coloro che non avevano l’ambizione di divenire eroi e che pure sentivano l’obbligo di tener fede a se stessi.

A questo elogio della resistenza civile fa poi da contrappunto l’indimenticabile descrizione della liberazione di Roma,  il 5 giugno 1944 l’incredulità della popolazione  nel realizzare che i tedeschi avevano abbandonato la città ,seguita dall’esplosione di gioia  all’ingresso in città delle truppe alleate al comando del generale Clark:

Al mattino tutti uscirono guardinghi; ispezionarono cautelosi le strade e le piazze dove non si vedevano più autocarri né soldati coi fucili spianati. Lo squallore li sgomentò, dapprima: temevano che celasse un tranello, un estremo stratagemma: ma fu proprio la deserta malinconia delle strade umiliate e malconce a dar loro la certezza che la città era stata abbandonata. Allora le case si svuotarono in un baleno, la gente correva via come acqua, dilagava nelle strade. Le vie tornarono a echeggiare passi, richiami. Tutti parlavano a voce alta, si chiamavano di sotto le finestre, le ragazze correvano in bicicletta e i loro capelli ariosi si sollevavano nel vento.[…] Affacciata alla terrazza mi stordivo nell’aria libera della bella estate e nelle grida festose che scoppiavano qua e là, come fuochi d’artificio. Dalla finestra sottostante udivo salire voci che disapprovavano un così clamoroso entusiasmo: invece a me pareva facile comprendere che quello era un modo di applaudire noi stessi, il nostro coraggio, la nostra pazienza, e così cancellare i duri giorni trascorsi, applaudire, gridare, urlare, provare che il lungo e tetro giorno era veramente finito. Bisognava essere privi di pietà per non comprendere che tanta vita repressa, costretta, imbavagliata, doveva pur esplodere in qualche modo.

Tuttavia la liberazione della città coincide, per amaro paradosso, anche con la progressiva restaurazione del maschilismo patriarcale. Per la protagonista  sarà  un dolore notare la freddezza e l’indifferenza di coloro che fino a pochi giorni prima avevano messo la propria vita nelle mani di lei. Con il ritorno dell’eroe (il marito della protagonista, anche lui partigiano), la sua figura, la sua partecipazione alla resistenza vengono eclissate, al punto da spingerla quasi a dubitare di sé stessa e della realtà di quanto era avvenuto,  vittima di una forma antesignana di gaslighting autoindotto che lascia nel suo animo un disperato senso di frustrazione ed amarezza:

Anche con i compagni, ormai, non trovavamo più nulla da dirci: l’amicizia che fingevamo era fittizia: in realtà essi erano tornati ad essere gli amici di Francesco. Infatti, quando conducevano con loro un nuovo amico o compagno me lo presentavano dicendo brevemente «la signora Minelli» e già, trascinandolo pel braccio mentre costui avrebbe voluto indugiarsi in qualche frase di convenienza, lo presentavano a Francesco con una voce del tutto diversa. Poi illustravano le ormai famose avventure di mio marito. Io ero contenta che non accennassero alle modeste missioni che io avevo compiuto: poiché, per me, esse possedevano un valore assolutamente personale e mi infastidiva che altri ne disponesse liberamente. Tuttavia mi veniva fatto di sospettare che le bombe che avevo portato io fossero false: se solamente quelle che gli uomini avevano portato rappresentavano un pericolo; dubitavo del contenuto dei manifesti; ricordavo che i messaggi erano per lo più frasi insulse, simili a quelle che si trovano nelle grammatiche di una lingua straniera. Non significavano nulla, forse; incominciavo a credere che fossero stati preparati al solo scopo di beffarmi. Ma, se anche fossero stati falsi, ciò non avrebbe avuto importanza; io li avevo portati con la stessa paura, avevo ugualmente accettato di correre quel rischio. 

«E ora tutti eravamo qui, tutti ugualmente salvi, tutti scampati»; ma con i liberatori che tornavano a riscoprirsi maschi  e che per paradosso ripristinavano senza alcuna remora l’ordine costituito dei rapporti di forza, che li riconfermava – per citare Orwell – sempre e comunque più uguali degli altri. All’autrice non resta dunque che prendere amaramente atto di come per l’Italia , e soprattutto per le donne, la Liberazione sia stata in fondo una promessa tradita, che non ha avuto comunque il potere di scalfirne l’individualità peculiare che le rende irriducibilmente altre rispetto alla causa vincitrice del mondo maschile:

(…)Con gli anni mi è sembrato di scoprire quanta illusione è nel termine stesso libertà.[…]Ho visto l’Italia perdere la propria indipendenza nel 1945 in nome di una libertà di cui io mi domando il senso oggi (…)Io mi domando anche qual senso abbia l’amore e se parlarne non sia un’ipocrisia o una prova di debolezza. Posso dire che in una donna anche dalle vicissitudini più deludenti la forza dell’amore emerge sempre come da una fonte inestinguibile.


RISORSE E NOTE A MARGINE

– Le enfasi grafiche nelle citazioni (corsivi e grassetti) sono mie;

– E’ stata qui effettuata la scelta di riportare citazioni esclusivamente relative alle vicende storiche comprese tra il bombardamento della città e la sua liberazione non alla trama del romanzo, un capolavoro assoluto del nostro Novecento, per lasciare intatto il piacere della lettura dell’opera- che davvero, davvero meriterebbe di essere letta da ogni donna e di essere inclusa di diritto nel canone delle opere imprescindibili…..ma questa è ben altra questione che tuttavia allontanerebbe troppo (?) dall’argomento di questo post;

– Al romanzo di Alba de Céspedes ed in particolare alla sua partecipazione e posizione sulla Resistenza sono dedicati in rete parecchi contributi; ricordiamo qui la recensione  a firma di Giosuè David su La Falla  e l’invito alla lettura del romanzo pubblicato da Alessia Martoni su Critica letteraria 

-Il contributo di Rai Cultura all’approfondimento della figura e dell’opera dell’autrice;

– L’articolo a firma di Annalisa Camilli, pubblicato su Internazionale e dedicato al ruolo rimosso  delle donne nella Resistenza, che cita peraltro l’opera della storica Simona Lunadei e la testimonianza di Carla Capponi;

-La rilevanza del ruolo delle donne della Resistenza romana, viene giustamente esplicitata e sottolineata  nella sala  a loro dedicata del Museo della Liberazione di Roma, un tempo sede già sede delle famigerate celle di detenzione  di via Tasso, e vi si sottolinea come sia stato proprio grazie a loro che l’occupazione tedesca  non sia riuscita a realizzare il piano di sottomettere e piegare la città, anche  e soprattutto moralmente.