Romanzi

Dalla parte di lei. Note a margine sull’antifascismo al femminile

Questo post è stato pensato in dialogo con i due post recentemente pubblicati su NonSoloProust e dedicati alla Resistenza delle donne di Benedetta Tobagi e al Diario partigiano di Ada Gobetti, da cui emergono gli ostacoli di ordine evidentemente culturale che hanno impedito fino ad oggi di riconoscere l’effettivo contributo  e la peculiarità dell’impegno femminile nell’opposizione al nazifascismo. A sperimentare  in prima persona la frustrazione di questo mancato riconoscimento  è – anche – Alba de Céspedes,che nella Resistenza fu impegnata  in prima persona e che retrospettivamente compie una disamina impietosa delle dinamiche maschiliste e patriarcali resistenti, quale ironia,anche nei gruppi partigiani. De Céspedes , che con un’espressione forse oramai desueta può certamente definirsi una donna di temperamento, è già compromessa con il regime fascista a causa della pubblicazione di Nessuno torna indietro, romanzo che sovverte dal profondo i canoni della femminilità disegnati dal regime fascista, ma che riesce ad eludere la censura grazie al notevole successo di critica e pubblico, nonché dell’ autorevolezza dei recensori Sem Benelli e Francesco Flora, (entrambi, per inciso, firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascistiNella prefazione al romanzo Dalla parte di lei  – sorprendente opera di indagine sulla condizione femminile, nei suoi aspetti anche più oscuri e reconditi, che si intreccia con le vicende storiche legate alloccupazione tedesca di Roma, all’armistizio, alla formazione e all’azione delle diverse anime  della  Resistenza romana -, l’autrice dichiara espressamente come i suoi ideali  romantici legati ad una concezione eroica e pura della Resistenza fossero stati ben presto disattesi, e manifesta la propria insofferenza per lo stato di minorità in cui  si pretendeva che le donne rimanessero avvilite  nonostante il «supremo sacrificio compiuto da donne combattenti sia antifasciste che fasciste»:

Questo libro fu anche una mia presa di coscienza circa l’entusiasmo che mi aveva ingenuamente guidata nel combattimento per la libertà e nel convincimento che fosse possibile vivere l’amore come un’avventura senza limiti e senza ambiguità. Già in quegli anni, tra il 1946 ed il 1949, queste mie convinzioni cominciavano a vacillare. […]. L’esperienza della guerra e dell’impegno politico avevano resi ancor più intollerabili tali vincoli.  L’eguaglianza della donna e dell’uomo di fronte al pericolo e alla morte era ormai divenuta palese per me. Il passaggio delle linee del fronte sul fiume Sangroaveva rafforzato irrevocabilmente tale convinzione. Sapevo ormai che un uomo può tremare e una donna restare impavida durante un bombardamento di artiglieria.

L’Italia dell’immediato dopoguerra è ovviamente un immenso cumulo di macerie anche morali, su cui bisogna ricostruire una nazione attraverso il senso di aggregazione ed appartenenza.; la fretta, la necessità di accantonare gli odi e il desiderio di vendetta, ancora fumanti come le rovine dei bombardamenti, devono necessariamente condurre ad un compromesso, ad un superamento delle rivalità e delle differenze di parte. Ma questa operazione non è indolore, e soprattutto, non consente l’elaborazione del trauma indicibile della guerra civile, ma solo la sua  provvisoria rimozione attraverso il ritorno ad una normalità che tale oramai non poteva più essere , rivelandosi al contrario nel proprio desolante squallore:

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D’altronde l’insofferenza dei vincoli che rattenevano le donne dall’esprimere la loro volontà di azione, pesava vieppiù su di me. Tale insofferenza si era già espressa nel mio primo romanzo Nessuno torna indietro, ma non avevo più ventisette anni come all’epoca della pubblicazione di esso. L’esperienza della guerra e dell’impegno politico avevano resi ancor più intollerabili tali vincoli. L’eguaglianza della donna e dell’uomo di fronte al pericolo e alla morte era ormai divenuta palese per me.
Il passaggio delle linee del fronte sul fiume Sangro aveva rafforzato irrevocabilmente tale convinzione. Sapevo ormai che un uomo può tremare e una donna restare impavida durante un bombardamento di artiglieria. In seguito la documentazione storica mi avrebbe reso edotta del supremo sacrificio compiuto da donne combattenti sia antifasciste che fasciste.
Mi esasperava dunque con il ritorno alla normalità ritrovarmi nella condizione di subalterna che la società mi attribuiva in quanto donna.
Soltanto una donna poteva capire in quel tempo quanto fosse irritante sentirsi sotto tutela.


Roma, 16 luglio 1943. I bombardieri delle forze alleate colpiscono il quartiere San Lorenzo. E’ il primo bombardamento sulla capitale (e purtroppo non sarà l’unico): l’attacco avviene in pieno giorno, la città è totalmente colta di sorpresa, le abitazioni crollano, le perdite umane sono numerose,  La descrizione degli eventi ci viene così restituita dalla voce della protagonista del romanzo, che si sofferma in particolare, oltre che sull’ evidente stato di choc dei sopravvissuti,  sulle vittime animali, in particolare i cavalli di una scuderia,  vera strage degli innocenti della follia incomprensibile piovuta dal cielo :

Durante il bombardamento io ero in una vecchia cantina di via Venti Settembre. Le altre donne avevano molta paura e gridavano, chiamavano la Madonna. Io avevo molta paura. Due giorni dopo andai (…) a vedere il quartiere bombardato. Eravamo sul piazzale del Verano quando ci raggiunse l’odore dei cavalli morti: era un odore così acuto che dovemmo portare il fazzoletto al viso, e Tomaso mi prese sottobraccio. Una scuderia era stata colpita in pieno, ci dissero, quella dove stallavano i cavalli neri dei trasporti funebri. Chi era giunto per i soccorsi aveva udito i nitriti alti, disperati. Le voci degli uomini sepolti vivi nelle cantine non si udivano, invece. Durante l’opera di salvataggio sempre i cavalli avevano nitrito e quando, infine, tacquero, certo anche l’ultimo grido umano si era spento sotto le macerie.
Il quartiere di San Lorenzo era deserto. Sui fianchi delle case, negli squarci, pendevano materassi, indumenti, ritratti, e il silenzio pesava nei cortili soffocati di calcinacci e polvere. Dappertutto si sentiva quell’odore dolciastro e nauseabondo(…). Incontrammo un vecchio che portava in mano un secchio da riempire alla fontana. «Ero appena uscito in istrada» diceva «e la casa mi è crollata dietro.» 

Per quanto sconvolta, la città prova a reagire. Si attendono le notizie dalla radio, appare evidente che l’evento non può lasciare le cose immutate, che qualche radicale cambiamento si stia ormai preparando. Tutta la città, in ansia, è in attesa di notizie. Il fascismo, la “voce arrogante” del Duce, tuona e minaccia rappresaglia e vendetta contro i traditori; ma è un regime al suo epilogo. Pochissimi giorni dopo, la notte del 25 luglio, avverrà la caduta del Gran Consiglio del Fascismo e Mussolini sarà deposto dal proprio ruolo di capo del Governo. Gli antifascisti romani, molti dei quali ovviamente fino a quel momento non dichiarati come tali ma tra di loro in collegamento, considerano oramai imminente la liberazione della città. Dalle linee impazzite dei telefoni, o tramite il semplice passaparola, si insiste con il monito: “ Ascoltate la musica”, questa volta non soltanto riferito alle trasmissioni clandestine di Radio Londra, ma anche all’EIAR, l’emittente radiofonica ufficiale, da cui si attende con il fiato sospeso la notizia insperabile:

A quell’ora ogni sera, mentre chiudevo la finestra, vedevo le donne del casamento dirimpetto chiudere la finestra benché il caldo fosse soffocante; per un attimo ci guardavamo. Ci guardammo con maggiore intensità, quella sera. (…) accostando l’orecchio alla tela che nascondeva l’altoparlante, udimmo bussare cupamente come per dirci di avere fiducia, attendere.
Ma noi sapevamo che quella sera
il conforto della stazione proibita non ci sarebbe bastato più. (…) volontariamente tornammo a consegnarci alla voce arrogante che per anni avevamo ascoltata, zitti, aspettando[…] La nostra rivolta si esprimeva proprio in quel silenzio, in quel modo paziente di aspettare(…) Fu in quel momento che la voce nuova parlò: senza arroganza, dolorosa, grave. (…) io ero sola di fronte a questa voce saggia e modesta: e, sebbene contenta di non aver più paura, scoppiai a piangere, umiliata che la voce arrogante fosse stata proprio la voce del mio tempo e della mia età.

Le voci, nella realtà storica, sono due,  quelle del re  Vittorio Emanuele III  e  di Pietro Badoglio, , il  maresciallo d’Italia  succeduto a Mussolini alla guida del governo, che nella notte del 25 luglio ai microfoni dell’EIAR  informa i cittadini che «la guerra continua», e che l’italia avrebbe «tenuto fede alla parola data» agli alleati (erano in corso le trattative per il futuro armistizio), proclamando «lo stato d’assedio e l’ordine di «sparare a vista contro i dimostranti» per limitare i disordini , non esplicitando la brutale verità del fatto che da quel momento la lotta contro il nemico si sarebbe trasformata in conflitto civile. La popolazione romana, tuttavia, esulta per la caduta del fascismo ed anche anche se il peggio, per la capitale, come è noto, era di là da venire (dal rastrellamento tedesco al Portico d’Ottavia, all’attentato di via Rasella e al conseguente massacro delle Fosse Ardeatine), i cittadini tornano per breve tempo a respirare- e di nuovo, a parlare e ad incontrarsi come da tempo non era possibile:

E attorno a noi la gente passava lesta. Alcune persone si fermarono in crocchio a parlare, poi tutti si aggrupparono presso una bottega dalla quale veniva il segnale della radio. Io avevo paura quando la gente si affollava per ascoltare la radio; era sempre un segno funesto. In Abruzzo erano tutti dispersi nelle campagne, qui indugiavano nelle strade ancora chiare d’estate; erano nelle case, a tavola, alcuni lavoravano, o erano innamorati, sembravano indifferenti, difesi, eppure dovevano subito interrompere ogni altra cura e accorrere docili ad ascoltare ciò che diceva la radio. Non era più una miracolosa invenzione che trasmetteva la musica o i richiami per salvare le navi. Era una inesorabile potenza: il corso della nostra vita dipendeva in gran parte da ciò che diceva la radio. «Giungemmo appena in tempo per udire le ultime parole e poi restammo zitti, pallidi, mentre qualche soldato lanciava in aria il berretto rallegrandosi che fosse stato firmato l’armistizio.

Da quel momento inizia per la protagonista il coinvolgimento attivo  nella Resitenza., «il lungo giorno nel quale io non ho mai potuto riposare».[…] .Il romanzo di De Céspedes descrive la partecipazione della protagonista di un’azione partigiana realizzata dalle delle “staffette” femminili, paradossalmente insospettabili a causa degli stereotipi del patriarcato,  che trasportano sulle loro biciclette manifesti, giornali, armi nelle borse della verdura che andavano a procurarsi non senza fatica fuori dalle mura cittadine – e che subivano immancabilmente le perquisizioni dei soldati tedeschi.Dal racconto emerge  con fin troppa chiarezza la disparità di trattamento riservata alle donne, il cui contributo, prezioso ed indispensabile, viene spesso concepito dacomandanti partigiani come deprivato di qualsiasi connotazione di eroismo, e nelle intenzioni confinato il più possibile nell’ambito delle attività domestiche:

All’andata io avevo l’impressione di fare un gita in campagna; Affidate a quel sibilo, simile a un ronzìo lieve di officina, tutte pedalavamo insieme, senza guardarci. […]. Guardavo le nuche delle donne come quelle delle compagne di scuola, e avrei voluto accarezzarle con tenerezza: alcune di queste donne si logoravano nella paziente ricerca del cibo per i figli, nella ricerca del danaro necessario a mantenerli; lavoravano tutte, dacché gli uomini erano lontani, e alcune di esse erano andate a rubare nei vagoni merci colpiti dai bombardamenti, altre andavano a letto coi soldati. Poiché tutto si poteva chiedere alle donne, non c’era limite: Tullio [il comandante del gruppo a cui appartengono la protagonista e suo marito,ndr] chiedeva di preparare un letto, lavare la biancheria di una compagna che aveva bisogno di rifugiarsi, chiedeva di far cucina a tutte le ore, per tutte le persone che passavano, bisognava servirle tutte, per tutte trovare cibo e talvolta danaro(…)e poi domandava se sapessimo andare in bicicletta. Agli uomini chiedeva solamente di andare in bicicletta.

Nel romanzo viene dato ampio spazio proprio alla  coraggiosa resistenza della cittadinanza in undici mesi di occupazione che non risparmiano nulla alla popolazione civile in termini di arresti, torture, rappresaglie e deportazioni, ma che pure per contro determinano, da parte dei civili, quegli atti di coraggio ed abnegazione che James Hillman definisce il «sublime della guerra»:

In quel tempo la città era piena di persone che non avrebbero mai avuto la possibilità di divenire eroi: eppure, tra noi tutti, circolava una solidarietà così profonda che spesso raggiungeva l’eroismo, benché attraverso la paura. Perciò, forse, c’intendevamo facilmente: bastava un cenno, un’occhiata. Le case si aprivano ai tribolati, accogliendoli nella miseria che era in esse, come se finalmente ci fossimo tutti risolti a rivelarci. Sì, veramente fu un’epoca che rese migliori anche coloro che non avevano l’ambizione di divenire eroi e che pure sentivano l’obbligo di tener fede a se stessi.

A questo elogio della resistenza civile fa poi da contrappunto l’indimenticabile descrizione della liberazione di Roma,  il 5 giugno 1944 l’incredulità della popolazione  nel realizzare che i tedeschi avevano abbandonato la città ,seguita dall’esplosione di gioia  all’ingresso in città delle truppe alleate al comando del generale Clark:

Al mattino tutti uscirono guardinghi; ispezionarono cautelosi le strade e le piazze dove non si vedevano più autocarri né soldati coi fucili spianati. Lo squallore li sgomentò, dapprima: temevano che celasse un tranello, un estremo stratagemma: ma fu proprio la deserta malinconia delle strade umiliate e malconce a dar loro la certezza che la città era stata abbandonata. Allora le case si svuotarono in un baleno, la gente correva via come acqua, dilagava nelle strade. Le vie tornarono a echeggiare passi, richiami. Tutti parlavano a voce alta, si chiamavano di sotto le finestre, le ragazze correvano in bicicletta e i loro capelli ariosi si sollevavano nel vento.[…] Affacciata alla terrazza mi stordivo nell’aria libera della bella estate e nelle grida festose che scoppiavano qua e là, come fuochi d’artificio. Dalla finestra sottostante udivo salire voci che disapprovavano un così clamoroso entusiasmo: invece a me pareva facile comprendere che quello era un modo di applaudire noi stessi, il nostro coraggio, la nostra pazienza, e così cancellare i duri giorni trascorsi, applaudire, gridare, urlare, provare che il lungo e tetro giorno era veramente finito. Bisognava essere privi di pietà per non comprendere che tanta vita repressa, costretta, imbavagliata, doveva pur esplodere in qualche modo.

Tuttavia la liberazione della città coincide, per amaro paradosso, anche con la progressiva restaurazione del maschilismo patriarcale. Per la protagonista  sarà  un dolore notare la freddezza e l’indifferenza di coloro che fino a pochi giorni prima avevano messo la propria vita nelle mani di lei. Con il ritorno dell’eroe (il marito della protagonista, anche lui partigiano), la sua figura, la sua partecipazione alla resistenza vengono eclissate, al punto da spingerla quasi a dubitare di sé stessa e della realtà di quanto era avvenuto,  vittima di una forma antesignana di gaslighting autoindotto che lascia nel suo animo un disperato senso di frustrazione ed amarezza:

Anche con i compagni, ormai, non trovavamo più nulla da dirci: l’amicizia che fingevamo era fittizia: in realtà essi erano tornati ad essere gli amici di Francesco. Infatti, quando conducevano con loro un nuovo amico o compagno me lo presentavano dicendo brevemente «la signora Minelli» e già, trascinandolo pel braccio mentre costui avrebbe voluto indugiarsi in qualche frase di convenienza, lo presentavano a Francesco con una voce del tutto diversa. Poi illustravano le ormai famose avventure di mio marito. Io ero contenta che non accennassero alle modeste missioni che io avevo compiuto: poiché, per me, esse possedevano un valore assolutamente personale e mi infastidiva che altri ne disponesse liberamente. Tuttavia mi veniva fatto di sospettare che le bombe che avevo portato io fossero false: se solamente quelle che gli uomini avevano portato rappresentavano un pericolo; dubitavo del contenuto dei manifesti; ricordavo che i messaggi erano per lo più frasi insulse, simili a quelle che si trovano nelle grammatiche di una lingua straniera. Non significavano nulla, forse; incominciavo a credere che fossero stati preparati al solo scopo di beffarmi. Ma, se anche fossero stati falsi, ciò non avrebbe avuto importanza; io li avevo portati con la stessa paura, avevo ugualmente accettato di correre quel rischio. 

«E ora tutti eravamo qui, tutti ugualmente salvi, tutti scampati»; ma con i liberatori che tornavano a riscoprirsi maschi  e che per paradosso ripristinavano senza alcuna remora l’ordine costituito dei rapporti di forza, che li riconfermava – per citare Orwell – sempre e comunque più uguali degli altri. All’autrice non resta dunque che prendere amaramente atto di come per l’Italia , e soprattutto per le donne, la Liberazione sia stata in fondo una promessa tradita, che non ha avuto comunque il potere di scalfirne l’individualità peculiare che le rende irriducibilmente altre rispetto alla causa vincitrice del mondo maschile:

(…)Con gli anni mi è sembrato di scoprire quanta illusione è nel termine stesso libertà.[…]Ho visto l’Italia perdere la propria indipendenza nel 1945 in nome di una libertà di cui io mi domando il senso oggi (…)Io mi domando anche qual senso abbia l’amore e se parlarne non sia un’ipocrisia o una prova di debolezza. Posso dire che in una donna anche dalle vicissitudini più deludenti la forza dell’amore emerge sempre come da una fonte inestinguibile.


RISORSE E NOTE A MARGINE

– Le enfasi grafiche nelle citazioni (corsivi e grassetti) sono mie;

– E’ stata qui effettuata la scelta di riportare citazioni esclusivamente relative alle vicende storiche comprese tra il bombardamento della città e la sua liberazione non alla trama del romanzo, un capolavoro assoluto del nostro Novecento, per lasciare intatto il piacere della lettura dell’opera- che davvero, davvero meriterebbe di essere letta da ogni donna e di essere inclusa di diritto nel canone delle opere imprescindibili…..ma questa è ben altra questione che tuttavia allontanerebbe troppo (?) dall’argomento di questo post;

– Al romanzo di Alba de Céspedes ed in particolare alla sua partecipazione e posizione sulla Resistenza sono dedicati in rete parecchi contributi; ricordiamo qui la recensione  a firma di Giosuè David su La Falla  e l’invito alla lettura del romanzo pubblicato da Alessia Martoni su Critica letteraria 

-Il contributo di Rai Cultura all’approfondimento della figura e dell’opera dell’autrice;

– L’articolo a firma di Annalisa Camilli, pubblicato su Internazionale e dedicato al ruolo rimosso  delle donne nella Resistenza, che cita peraltro l’opera della storica Simona Lunadei e la testimonianza di Carla Capponi;

-La rilevanza del ruolo delle donne della Resistenza romana, viene giustamente esplicitata e sottolineata  nella sala  a loro dedicata del Museo della Liberazione di Roma, un tempo sede già sede delle famigerate celle di detenzione  di via Tasso, e vi si sottolinea come sia stato proprio grazie a loro che l’occupazione tedesca  non sia riuscita a realizzare il piano di sottomettere e piegare la città, anche  e soprattutto moralmente.

Anschluss. Klaus Mann e Thomas Bernhard

heldenplatz 4

1938, annus horribilis della storia d’Europa. Pochi mesi prima che anche nel nostro Paese si perpetrasse la criminale infamia delle leggi razziali, la Cancelleria austriaca cede definitivamente a Hitler e al progetto di annessione alla Germania. Alla celebrazione ufficiale dellAnschlüss austriaca assiste una folla delirante di 100000 persone che si riunisce nella centralissima Heldenplatz ( Piazza degli eroi) a Vienna per assistere e plaudire al trionfo nazionalsocialista. L’orrore di quel giorno risuonerà– è  proprio il caso di dire, come vedremo- a lungo nelle pagine degli scrittori che fin da subito, e senza compromessi, hanno fatto dell’antinazismo  la propria cifra esistenziale e artistica:  Klaus Mann e Thomas Bernhard.

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L’amore che salva. La Commedia e le Metamorfosi 

 

 

Per aspera ad astra.Il motto latino sarebbe più che sufficiente a sintetizzare la vicenda del poema dantesco (la vicenda, si basi, perché, come sosteneva Mandel’stam , straordinario conoscitore della Commedia,  non esiste vera poesia che sia riducibile alla sua parafrasi). Ma potrebbe anche sintetizzare, per intero, l’opera di Apuleio, in cui la discesa agli inferi di Psiche trova più punti di consonanza con il viaggio dantesco. Non è questa, ovviamente, la sede, per illustrare tutte le possibili corrispondenze tra le due opere, peraltro ampiamente frequentati da critici e specialisti di alt(r)o calibro; ma mi piace ricordare qui, come tardivo omaggio alla giornata a lui dedicata, un episodio della Commedia che crea un delizioso madrigale con la favola di Amore e Psiche.

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Non è questa la prima volta che ricordiamo la favola di Amore e Psiche su questo blog; e di certo a tutti sono note le terribili prove inflitte da Venere, la suocera gelosa e furibonda, alla misera Psiche, che ha l’unica colpa di aver fatto innamorare il  figliolo adorato e impenitente della dea. L’ultima di queste prove consiste nell’inviare Psiche negli Inferi: Venere sostiene di voler recupare la bellezza perduta a causa delle preoccupazioni per curare la ferita del figlio, per questo ordina a Psiche di chiedere a Proserpina un cofanetto che conterrebbe il più potente degli elisir di bellezza. Quando Psiche, sola, disperata ed incinta, sale su una torre determinata a suicidarsi, la torre la ammonisce a non commettere un sacrilegio e la esorta piuttosto a recarsi alle porte del Tenaro, presso Sparta, luogo d’ingresso negli Inferi. Ma un viaggio simile non si può compiere da sprovveduti; la torre istruisce pertanto la giovane ad equipaggiarsi per affrontare i pericoli che troverà, esortandola a portare con sé due monete e due ciambelle, le prime per pagare Caronte, le altre per placare la fame di Cerbero. La esorterà inoltre ad ignorare le tessitrici o l’asinaio zoppo che imploreranno il suo aiuto, e neppure le anime che la imploreranno di salire sulla barca :  a Psiche converrà esser villana con loro per non lasciarsi sfuggire di mano le ciambelle, senza le quali non può sperare di fare ritorno nel mondo della luce. Una volta giunta al cospetto di Proserpina, a Psiche non resterà che gettarsi umilmente ai suoi piedi e attendere che il cofanetto, in segreto, venga riempito. Ed ecco che, ormai compiuto il percorso a ritroso e ritornata a vedere la luce, la giovane non resiste, e convinta di apparire troppo sciupata per il suo Amore, apre il cofanetto in cui è contenuto un torpore di morte. La povera Psiche sarà salvata appena in tempo da Amore, che guarito dalla ferita e avendola perdonata per il tradimento, vola in suo soccorso e la risveglia pietoso e innamorato:

Sed Cupido iam cicatrice solida reualescens nec diutinam suae Psyches absentiam tolerans per altissimam cubiculi quo cohibebatur elapsus fenestram (3) refectisque pennis aliquanta quiete longe uelocius prouolans Psychen accurrit suam detersoque somno curiose et rursum in pristinam pyxidis sedem recondito Psychen innoxio punctulo sagittae suae suscitat (4) et: “Ecce” inquit “rursum perieras, misella, simili curiositate.

“Intanto, Cupido, guarito ormai dalla ferita che s’era rimarginata, non sopportando più a lungo la lontananza di Psiche, era fuggito da un’altissima finestra della stanza dove lo tenevano rinchiuso e, volando più veloce del solito sulle ali rinvigorite dal lungo riposo, accorse dalla sua Psiche. Premurosamente egli le dissipò il sonno che rinchiuse di nuovo dove era prima nella scatola, poi, appena pungendola con una sua freccia, ma senza farle del male, la svegliò: ‘Oh, povera cara,’ le disse ‘ecco che la tua curiosità stava lì lì per perderti un’altra volta.

Cupido si adopererà poi per porre definitivamente fine alle pene della sua amata, esortandola a recare a Venere il famoso cofanetto e rivolgendosi a Giove perché lo aiutasse a convolare a giuste nozze; ed è a quel punto che Psiche, bevendo dalla coppa immortale dell’ambrosia, ascende al cielo tra gli dei per essere in eterno la sposa di Amore. Con il risveglio dal sonno, dunque, il lungo percorso di Psiche verso Amore ha fine, mentre  quello di  Dante comincia.


All’inizio della Commedia Dante, risvegliato d’improvviso, si ritrova nella «selva oscura», in cui non sa  «ridire» come  sia entrato, tanto era «pieno di sonno»   quando ha abbandonato il sentiero della verità; certo, apparentemente si risveglia da solo, e pieno di terrore, un terrore accresciuto peraltro dal vano tentativo di ascendere al colle  e dall’incontro con le  tre fiere; è a quel punto che appare l’ombra di Virgilio, che dopo averlo ammonito circa l’inutilità dei suoi tentativi lo avverte della necessità di «tenere altro viaggio», assai più lungo e irto di pericoli, tra gli antichi spiriti dolenti  e poi tra le anime in penitenza fino ad ascendere alla sede dei beati e alla contemplazione divina. Dante, inizialmente si volge a seguire Virgilio pieno di slancio; ma prima di accedere al regno infernale è colto da dubbi e timori, che Virgilio dissipa rivelandogli che proprio Beatrice, la donna da lui invano amata e scomparsa prematuramente,  non ha esitato a discendere negli Inferi per salvarlo, angosciata anzi dall’idea di essersi mossa troppo tardi;

Lucevan li occhi suoi più che la stella; 
e cominciommi a dir soave e piana, 
con angelica voce, in sua favella:  (…)                                 57

 temo che non sia già sì smarrito, 
ch’io mi sia tardi al soccorso levata, 
per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.                             66

Or movi, e con la tua parola ornata 
  e con ciò c’ha mestieri al suo campare 
 l’aiuta, sì ch’i’ ne sia consolata.                                      69

  I’ son Beatrice che ti faccio andare; 
  vegno del loco ove tornar disio; 
   amor mi mosse, che mi fa parlare.   

 

Beatrice, dunque -certo per volontà della beata Vergine e per intercessione di Lucia, – invoca il soccorso di Virgilio perché Dante si risvegli dal sonno; naturalmente questo risveglio, per il poeta, coinciderà, come si diceva, con l’inizio della prova e non con il suo compimento. Ma sarà il pensiero di Beatrice accorata per il suo destino tanto da apparire a Virgilio con gli occhi pieni di lacrime («li occhi lucenti lagrimando volse» a dargli il coraggio di affrontare il lungo percorso e le prove, anche terribili, che lo attendono:

Tu m’hai con disiderio il cor disposto 
sì al venir con le parole tue, 
ch’i’ son tornato nel primo proposto.   

E nel momento in cui la volontà di Dante è ormai orientata alla salvezza, il nuovo incontro con Beatrice e l’ascesa al cielo con lei saranno inevitabili; ciò che forse si tende a dimenticare, rapiti come siamo tutti dalla folgorante bellezza della poesia del Paradiso, è che Dante è in realtà stato salvato nel momento esatto in cui Beatrice è discesa in suo soccorso- e che, lei anima beata e ormai intangibile dalla miseria dell’inferno, non ha potuto evitare quelle lacrime d’amore (nel senso più alto del termine, ovvero quell’accoramento che tutti proviamo quando si tratta della salvezza di chi ci è caro).

 


RISORSE E NOTE A MARGINE

-Il testo integrale con traduzione della favola di Amore e Psiche, a cura di Nunzio Castaldi;

-Il testo integrale del canto II della Commedia , con analisi e commento;

-Non sono mai riuscita ad mmaginare la Beatrice dantesca con volto altro che non fosse  il volto riproposto da Botticelli nelle sue infinite varianti, da Venere alla Vergine (quello che “presto” qui a Beatrice è in realtà ripreso dalla Madonna della melagrana) L’ultima immagine fa invece parte della serie di illustrazioni per la Commedia,  che l’artista realizza su commissione di Lorenzo de’ Medici

LA PESTE ( 2.0). Pietro Verri e Alessandro Manzoni

Come è purtroppo noto a tutti, il nostro paese si sta trovando in queste ore- in poche ore- ad affrontare unemergenza sanitaria di inaudita contagiosità e virulenza; la sostanziale ubiquità e simultaneità del mondo globale ha fatto sì che anche in Italia il COVID- 19 (questo il nome scientifico del virus) sia arrivato e si stia diffondendo in tempi rapidissimi . Il Consiglio dei ministri ha nelle ore recenti predisposto un decreto con le misure cautelari necessarie ad impedire il più possibile il propagarsi del contagio, che già in (troppo) numerosi casi si è  rivelato letale ( e il fatto che le vittime avessero un’età avanzata o altre patologie preesistenti non diminuisce certo la tragicità del dato, quando ci si ricordi che di esseri umani si tratta, e non di numeri). Poiché, purtroppo, il primo focolaio è stato isolato in Lombardia (seguita praticamente subito  da Veneto, Piemonte  ed  Emilia Romagna),risulta inevitabile che il pensiero corra alle pagine di  Pietro Verri e di Manzoni dedicate alla pestilenza del 1630 che pure colpì Milano e si diffuse in Piemonte e nella Repubblica di Venezia,  non fosse altro che perché sono pagine che tutti abbiamo sfogliato sui banchi di scuola; il motivo del richiamo ai nostri autori, però, non vuole essere qui speculazione di cattivo gusto o contributo all’alimentazione della psicosi collettiva: il  coronavirus non è la peste e l’Italia del 2020  ha ben altri strumenti e protocolli di cura e prevenzione rispetto a quelli esistenti quattrocento anni fa. Senza quindi entrare nel merito di qualsivoglia giudizio medico-scientifico o politico, che evidentemente non ci compete, volevamo riflettere qui sullo sgretolamento di ogni patto sociale e sulle forme di panico di massa da cui questo tipo di emergenza  sembra essere invariabilmente accompagnato; con il dilagare, prima ancora che del virus, di ogni forma di abuso e di violenza rivolta ai presunti untori , la cui individuazione (arbitraria) è immancabile e, come mostrano le cronache, di molto precede la ratio della prevenzione e della cura.

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La viltà del rifiuto. Orazio e Cesare Pavese

 

O Pompeo, primo dei miei amici, che spesso corresti con me il pericolo estremo nell’esercito di Bruto, chi ti restituì Quirite agli dei patrii e al cielo d’Italia?

 Con te, spesso trascorsi tra le coppe le lunghe giornate, incoronandomi il capo lucido di malobatro sirio; e con te, abbandonata alquanto vilmente la parmula,  provai la rotta sfrenata di Filippi, quando i valorosi furono sconfitti e gli spavaldi batterono il mento nella polvere sozza. […]

Quando si accosta ad Orazio facendone prova di traduzione con l’asprezza maldestra dell’adolescenza, Pavese non può immaginare che, esattamente mille anni dopo battaglia di Filippi, ,  anche a lui toccherà assistere alla guerra fratricida   che insanguinerà l’Italia fino alla Liberazione, e in cui moriranno molti dei suoi amici più cari.  L’immagine dell’Ode II,7 in cui Orazio rievoca l’abbandono dello scudo come simbolo della sua diserzione   tormenterà Pavese per sempre, fino alla sua ultima raccolta, quando di quei versi si ricorderà per provare a dar voce a quel «vecchio rimorso» che lo accompagnerà fino alla fine.

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La sentenza di Sibilla. Petronio, Eliot, Dürrenmatt

sibilla_persica«Tu ne quaesieris, scire nefas»; non chiedere cosa sarà domani, perché saperlo è sventura. Lo sanno bene la Sibilla, la Pizia e le altre loro sorelle,che qui vedremo vecchie, ammalate e stanche di profetizzare ciò che mai è nuovo sotto il sole, e che forse per questo pietosamente confondevano nel vento, tra le foglie levi ,i loro responsi, perché «solo la non conoscenza del futuro ci rende sopportabile il presente.»

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Gabbiani/2. …..Márai, Benjamin

 Il gabbiano come simbolo della sicurezza nel volare  incontro alla tempesta e gettarsi in picchiata  con istinto suicida ritorna nel  romanzo a cui Sándor Márai inizia a lavorare Maraidopo  Le braci, e che sarà pubblicato nel 1943, quando l’Ungheria è ormai pienamente travolta dalla furia della guerra. Il romanzo però è -con ogni evidenza- ambientato due anni prima, quando il Regno di Ungheria, alleato della Germania nazista, dopo aver invaso la Jugoslavia impadronendosi dei territori della  Bačka  e della Vojvodina (oggi  appartenenti alla Serbia) firma, il 27 giugno, la fatale dichiarazione di guerra contro l’Unione Sovietica, che avrà per il paese conseguenze incalcolabili: l’intera seconda armata dell’esercito ungherese, che si era peraltro astenuta dagli atroci crimini di guerra compiuti dalle truppe tedesche, sarà sterminata nel corso della battaglia di Stalingrado; il tentativo del governo ungherese di prendere contatti con le forze  alleate sarà intercettato dai tedeschi, che nel 1944 invaderanno il paese, deponendo  il reggente del Regno Miklós Horthy  e consegnando successivamente il potere nelle mani di Ferenc Szálasi, capo del partito filonazista delle Croci Frecciate, a cui seguiranno la persecuzione e la deportazione degli ebrei è poi, un anno dopo, la liberazione (i.e. l’occupazione) da parte delle truppe sovietiche. (altro…)

Omnia vicit Amor. George Orwell e Czesław Miłosz

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.Il titolo di questo post, lo dichiaro subito,  è volutamente ingannevole- e il sospetto vi sarà venuto, dato che  questi due immensi autori non sono certo noti per la loro inclinazione al sentimentalismo. Pure,nelle loro opere  entrambi d’amore parlano, e profusamente; quella con il Potere totalitario, soprattutto di matrice sovietica,  è una storia d’amore che nasce dall’odio o che nell’odio si riconverte, e che ci viene raccontata qui in due  tra le sue infinite varianti- l’Amore conosce molte strade- che attraverso un cammino tortuoso, irto di sofferenze e pericoli,  finiscono  per condurre al medesimo epilogo.

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L’Estinzione del Tempo .Thomas Bernhard e Marcel Proust

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«Longtemps je me suis couché de bonne houre»….«Per molto tempo mi sono coricato presto, la sera».  Certamente uno degli incipit più noti ed indimenticabili della storia della letteratura, di quella miracolosa ricostruzione del tempo perduto che si concluderà soltanto sette volumi dopo, quando il Narratore, a cui il Tempo ha donato la chiave per dischiudere le sue porte impenetrabili, si proporrà di scrivere quel sublime romanzo che il lettore ha appena terminato di leggere. Singolare, dunque, vedere come il momento iniziale e quello finale del tempo implodano e quasi collassino su se stessi in Estinzione, l’ultimo e certamente il più ambizioso romanzo di Thomas Bernhard in cui il protagonista,Franz Joseph Murau,  dalla sua casa di Roma, dove insegna letteratura tedesca all’allievo Gambetti, suo interlocutore  nel romanzo, si propone di raccontare e descrivere la residenza di Wolfsegg, il castello di famiglia in Austria,e il destino e il carattere dei suoi abitanti, «a costo di farli sembrare mostruosi» come il Narratore proustiano, bruciandone così la parabola in un atto creativo che reca evidente l’intenzione dell’annullamento. (altro…)

Tre paia di orecchini(anzi, quattro)/2…. Gadda

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Il quarto ed ultimo paio di orecchini è  forse il più prezioso, e   la sua luce certamente la più tragica. Si tratta infatti di   orecchini di brillanti, indossati da un’anziana signora che vagava, sola, per la casa, consumata dallo strazio per  un figlio che non tornerà più e dal terrore ispiratogli da quello sopravvissuto:  incapace, quest’ultimo,  di rivolgersi alla figura materna, pur così amata e venerata, altrimenti che attraverso un tono aggressivo e rancoroso, traboccante di un odio  che non è  se non gelosia e possessività disperata, bisogno di sentire la Mamma tutta per sé e non di doverla dividere con i petulanti peones del villaggio, su cui lei, «così invecchiata», si ostina a« bavare bontà». Ed ecco che, dunque, lo sguardo «animato da un sentimento non pio» del figlio si ostina a fissarsi sugli orecchini, unico simbolo di un passato altrimenti felice ed ora eternamente brillanti, come luci votive, in memoria dei morti,pure inutili a proteggere l’anziana madre dalla violenza di quel destino di cui pure il figlio sembra dimostrarsi volenteroso esecutore.

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