Letteratura italiana

Dalla parte di lei. Note a margine sull’antifascismo al femminile

Questo post è stato pensato in dialogo con i due post recentemente pubblicati su NonSoloProust e dedicati alla Resistenza delle donne di Benedetta Tobagi e al Diario partigiano di Ada Gobetti, da cui emergono gli ostacoli di ordine evidentemente culturale che hanno impedito fino ad oggi di riconoscere l’effettivo contributo  e la peculiarità dell’impegno femminile nell’opposizione al nazifascismo. A sperimentare  in prima persona la frustrazione di questo mancato riconoscimento  è – anche – Alba de Céspedes,che nella Resistenza fu impegnata  in prima persona e che retrospettivamente compie una disamina impietosa delle dinamiche maschiliste e patriarcali resistenti, quale ironia,anche nei gruppi partigiani. De Céspedes , che con un’espressione forse oramai desueta può certamente definirsi una donna di temperamento, è già compromessa con il regime fascista a causa della pubblicazione di Nessuno torna indietro, romanzo che sovverte dal profondo i canoni della femminilità disegnati dal regime fascista, ma che riesce ad eludere la censura grazie al notevole successo di critica e pubblico, nonché dell’ autorevolezza dei recensori Sem Benelli e Francesco Flora, (entrambi, per inciso, firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascistiNella prefazione al romanzo Dalla parte di lei  – sorprendente opera di indagine sulla condizione femminile, nei suoi aspetti anche più oscuri e reconditi, che si intreccia con le vicende storiche legate alloccupazione tedesca di Roma, all’armistizio, alla formazione e all’azione delle diverse anime  della  Resistenza romana -, l’autrice dichiara espressamente come i suoi ideali  romantici legati ad una concezione eroica e pura della Resistenza fossero stati ben presto disattesi, e manifesta la propria insofferenza per lo stato di minorità in cui  si pretendeva che le donne rimanessero avvilite  nonostante il «supremo sacrificio compiuto da donne combattenti sia antifasciste che fasciste»:

Questo libro fu anche una mia presa di coscienza circa l’entusiasmo che mi aveva ingenuamente guidata nel combattimento per la libertà e nel convincimento che fosse possibile vivere l’amore come un’avventura senza limiti e senza ambiguità. Già in quegli anni, tra il 1946 ed il 1949, queste mie convinzioni cominciavano a vacillare. […]. L’esperienza della guerra e dell’impegno politico avevano resi ancor più intollerabili tali vincoli.  L’eguaglianza della donna e dell’uomo di fronte al pericolo e alla morte era ormai divenuta palese per me. Il passaggio delle linee del fronte sul fiume Sangroaveva rafforzato irrevocabilmente tale convinzione. Sapevo ormai che un uomo può tremare e una donna restare impavida durante un bombardamento di artiglieria.

L’Italia dell’immediato dopoguerra è ovviamente un immenso cumulo di macerie anche morali, su cui bisogna ricostruire una nazione attraverso il senso di aggregazione ed appartenenza.; la fretta, la necessità di accantonare gli odi e il desiderio di vendetta, ancora fumanti come le rovine dei bombardamenti, devono necessariamente condurre ad un compromesso, ad un superamento delle rivalità e delle differenze di parte. Ma questa operazione non è indolore, e soprattutto, non consente l’elaborazione del trauma indicibile della guerra civile, ma solo la sua  provvisoria rimozione attraverso il ritorno ad una normalità che tale oramai non poteva più essere , rivelandosi al contrario nel proprio desolante squallore:

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D’altronde l’insofferenza dei vincoli che rattenevano le donne dall’esprimere la loro volontà di azione, pesava vieppiù su di me. Tale insofferenza si era già espressa nel mio primo romanzo Nessuno torna indietro, ma non avevo più ventisette anni come all’epoca della pubblicazione di esso. L’esperienza della guerra e dell’impegno politico avevano resi ancor più intollerabili tali vincoli. L’eguaglianza della donna e dell’uomo di fronte al pericolo e alla morte era ormai divenuta palese per me.
Il passaggio delle linee del fronte sul fiume Sangro aveva rafforzato irrevocabilmente tale convinzione. Sapevo ormai che un uomo può tremare e una donna restare impavida durante un bombardamento di artiglieria. In seguito la documentazione storica mi avrebbe reso edotta del supremo sacrificio compiuto da donne combattenti sia antifasciste che fasciste.
Mi esasperava dunque con il ritorno alla normalità ritrovarmi nella condizione di subalterna che la società mi attribuiva in quanto donna.
Soltanto una donna poteva capire in quel tempo quanto fosse irritante sentirsi sotto tutela.


Roma, 16 luglio 1943. I bombardieri delle forze alleate colpiscono il quartiere San Lorenzo. E’ il primo bombardamento sulla capitale (e purtroppo non sarà l’unico): l’attacco avviene in pieno giorno, la città è totalmente colta di sorpresa, le abitazioni crollano, le perdite umane sono numerose,  La descrizione degli eventi ci viene così restituita dalla voce della protagonista del romanzo, che si sofferma in particolare, oltre che sull’ evidente stato di choc dei sopravvissuti,  sulle vittime animali, in particolare i cavalli di una scuderia,  vera strage degli innocenti della follia incomprensibile piovuta dal cielo :

Durante il bombardamento io ero in una vecchia cantina di via Venti Settembre. Le altre donne avevano molta paura e gridavano, chiamavano la Madonna. Io avevo molta paura. Due giorni dopo andai (…) a vedere il quartiere bombardato. Eravamo sul piazzale del Verano quando ci raggiunse l’odore dei cavalli morti: era un odore così acuto che dovemmo portare il fazzoletto al viso, e Tomaso mi prese sottobraccio. Una scuderia era stata colpita in pieno, ci dissero, quella dove stallavano i cavalli neri dei trasporti funebri. Chi era giunto per i soccorsi aveva udito i nitriti alti, disperati. Le voci degli uomini sepolti vivi nelle cantine non si udivano, invece. Durante l’opera di salvataggio sempre i cavalli avevano nitrito e quando, infine, tacquero, certo anche l’ultimo grido umano si era spento sotto le macerie.
Il quartiere di San Lorenzo era deserto. Sui fianchi delle case, negli squarci, pendevano materassi, indumenti, ritratti, e il silenzio pesava nei cortili soffocati di calcinacci e polvere. Dappertutto si sentiva quell’odore dolciastro e nauseabondo(…). Incontrammo un vecchio che portava in mano un secchio da riempire alla fontana. «Ero appena uscito in istrada» diceva «e la casa mi è crollata dietro.» 

Per quanto sconvolta, la città prova a reagire. Si attendono le notizie dalla radio, appare evidente che l’evento non può lasciare le cose immutate, che qualche radicale cambiamento si stia ormai preparando. Tutta la città, in ansia, è in attesa di notizie. Il fascismo, la “voce arrogante” del Duce, tuona e minaccia rappresaglia e vendetta contro i traditori; ma è un regime al suo epilogo. Pochissimi giorni dopo, la notte del 25 luglio, avverrà la caduta del Gran Consiglio del Fascismo e Mussolini sarà deposto dal proprio ruolo di capo del Governo. Gli antifascisti romani, molti dei quali ovviamente fino a quel momento non dichiarati come tali ma tra di loro in collegamento, considerano oramai imminente la liberazione della città. Dalle linee impazzite dei telefoni, o tramite il semplice passaparola, si insiste con il monito: “ Ascoltate la musica”, questa volta non soltanto riferito alle trasmissioni clandestine di Radio Londra, ma anche all’EIAR, l’emittente radiofonica ufficiale, da cui si attende con il fiato sospeso la notizia insperabile:

A quell’ora ogni sera, mentre chiudevo la finestra, vedevo le donne del casamento dirimpetto chiudere la finestra benché il caldo fosse soffocante; per un attimo ci guardavamo. Ci guardammo con maggiore intensità, quella sera. (…) accostando l’orecchio alla tela che nascondeva l’altoparlante, udimmo bussare cupamente come per dirci di avere fiducia, attendere.
Ma noi sapevamo che quella sera
il conforto della stazione proibita non ci sarebbe bastato più. (…) volontariamente tornammo a consegnarci alla voce arrogante che per anni avevamo ascoltata, zitti, aspettando[…] La nostra rivolta si esprimeva proprio in quel silenzio, in quel modo paziente di aspettare(…) Fu in quel momento che la voce nuova parlò: senza arroganza, dolorosa, grave. (…) io ero sola di fronte a questa voce saggia e modesta: e, sebbene contenta di non aver più paura, scoppiai a piangere, umiliata che la voce arrogante fosse stata proprio la voce del mio tempo e della mia età.

Le voci, nella realtà storica, sono due,  quelle del re  Vittorio Emanuele III  e  di Pietro Badoglio, , il  maresciallo d’Italia  succeduto a Mussolini alla guida del governo, che nella notte del 25 luglio ai microfoni dell’EIAR  informa i cittadini che «la guerra continua», e che l’italia avrebbe «tenuto fede alla parola data» agli alleati (erano in corso le trattative per il futuro armistizio), proclamando «lo stato d’assedio e l’ordine di «sparare a vista contro i dimostranti» per limitare i disordini , non esplicitando la brutale verità del fatto che da quel momento la lotta contro il nemico si sarebbe trasformata in conflitto civile. La popolazione romana, tuttavia, esulta per la caduta del fascismo ed anche anche se il peggio, per la capitale, come è noto, era di là da venire (dal rastrellamento tedesco al Portico d’Ottavia, all’attentato di via Rasella e al conseguente massacro delle Fosse Ardeatine), i cittadini tornano per breve tempo a respirare- e di nuovo, a parlare e ad incontrarsi come da tempo non era possibile:

E attorno a noi la gente passava lesta. Alcune persone si fermarono in crocchio a parlare, poi tutti si aggrupparono presso una bottega dalla quale veniva il segnale della radio. Io avevo paura quando la gente si affollava per ascoltare la radio; era sempre un segno funesto. In Abruzzo erano tutti dispersi nelle campagne, qui indugiavano nelle strade ancora chiare d’estate; erano nelle case, a tavola, alcuni lavoravano, o erano innamorati, sembravano indifferenti, difesi, eppure dovevano subito interrompere ogni altra cura e accorrere docili ad ascoltare ciò che diceva la radio. Non era più una miracolosa invenzione che trasmetteva la musica o i richiami per salvare le navi. Era una inesorabile potenza: il corso della nostra vita dipendeva in gran parte da ciò che diceva la radio. «Giungemmo appena in tempo per udire le ultime parole e poi restammo zitti, pallidi, mentre qualche soldato lanciava in aria il berretto rallegrandosi che fosse stato firmato l’armistizio.

Da quel momento inizia per la protagonista il coinvolgimento attivo  nella Resitenza., «il lungo giorno nel quale io non ho mai potuto riposare».[…] .Il romanzo di De Céspedes descrive la partecipazione della protagonista di un’azione partigiana realizzata dalle delle “staffette” femminili, paradossalmente insospettabili a causa degli stereotipi del patriarcato,  che trasportano sulle loro biciclette manifesti, giornali, armi nelle borse della verdura che andavano a procurarsi non senza fatica fuori dalle mura cittadine – e che subivano immancabilmente le perquisizioni dei soldati tedeschi.Dal racconto emerge  con fin troppa chiarezza la disparità di trattamento riservata alle donne, il cui contributo, prezioso ed indispensabile, viene spesso concepito dacomandanti partigiani come deprivato di qualsiasi connotazione di eroismo, e nelle intenzioni confinato il più possibile nell’ambito delle attività domestiche:

All’andata io avevo l’impressione di fare un gita in campagna; Affidate a quel sibilo, simile a un ronzìo lieve di officina, tutte pedalavamo insieme, senza guardarci. […]. Guardavo le nuche delle donne come quelle delle compagne di scuola, e avrei voluto accarezzarle con tenerezza: alcune di queste donne si logoravano nella paziente ricerca del cibo per i figli, nella ricerca del danaro necessario a mantenerli; lavoravano tutte, dacché gli uomini erano lontani, e alcune di esse erano andate a rubare nei vagoni merci colpiti dai bombardamenti, altre andavano a letto coi soldati. Poiché tutto si poteva chiedere alle donne, non c’era limite: Tullio [il comandante del gruppo a cui appartengono la protagonista e suo marito,ndr] chiedeva di preparare un letto, lavare la biancheria di una compagna che aveva bisogno di rifugiarsi, chiedeva di far cucina a tutte le ore, per tutte le persone che passavano, bisognava servirle tutte, per tutte trovare cibo e talvolta danaro(…)e poi domandava se sapessimo andare in bicicletta. Agli uomini chiedeva solamente di andare in bicicletta.

Nel romanzo viene dato ampio spazio proprio alla  coraggiosa resistenza della cittadinanza in undici mesi di occupazione che non risparmiano nulla alla popolazione civile in termini di arresti, torture, rappresaglie e deportazioni, ma che pure per contro determinano, da parte dei civili, quegli atti di coraggio ed abnegazione che James Hillman definisce il «sublime della guerra»:

In quel tempo la città era piena di persone che non avrebbero mai avuto la possibilità di divenire eroi: eppure, tra noi tutti, circolava una solidarietà così profonda che spesso raggiungeva l’eroismo, benché attraverso la paura. Perciò, forse, c’intendevamo facilmente: bastava un cenno, un’occhiata. Le case si aprivano ai tribolati, accogliendoli nella miseria che era in esse, come se finalmente ci fossimo tutti risolti a rivelarci. Sì, veramente fu un’epoca che rese migliori anche coloro che non avevano l’ambizione di divenire eroi e che pure sentivano l’obbligo di tener fede a se stessi.

A questo elogio della resistenza civile fa poi da contrappunto l’indimenticabile descrizione della liberazione di Roma,  il 5 giugno 1944 l’incredulità della popolazione  nel realizzare che i tedeschi avevano abbandonato la città ,seguita dall’esplosione di gioia  all’ingresso in città delle truppe alleate al comando del generale Clark:

Al mattino tutti uscirono guardinghi; ispezionarono cautelosi le strade e le piazze dove non si vedevano più autocarri né soldati coi fucili spianati. Lo squallore li sgomentò, dapprima: temevano che celasse un tranello, un estremo stratagemma: ma fu proprio la deserta malinconia delle strade umiliate e malconce a dar loro la certezza che la città era stata abbandonata. Allora le case si svuotarono in un baleno, la gente correva via come acqua, dilagava nelle strade. Le vie tornarono a echeggiare passi, richiami. Tutti parlavano a voce alta, si chiamavano di sotto le finestre, le ragazze correvano in bicicletta e i loro capelli ariosi si sollevavano nel vento.[…] Affacciata alla terrazza mi stordivo nell’aria libera della bella estate e nelle grida festose che scoppiavano qua e là, come fuochi d’artificio. Dalla finestra sottostante udivo salire voci che disapprovavano un così clamoroso entusiasmo: invece a me pareva facile comprendere che quello era un modo di applaudire noi stessi, il nostro coraggio, la nostra pazienza, e così cancellare i duri giorni trascorsi, applaudire, gridare, urlare, provare che il lungo e tetro giorno era veramente finito. Bisognava essere privi di pietà per non comprendere che tanta vita repressa, costretta, imbavagliata, doveva pur esplodere in qualche modo.

Tuttavia la liberazione della città coincide, per amaro paradosso, anche con la progressiva restaurazione del maschilismo patriarcale. Per la protagonista  sarà  un dolore notare la freddezza e l’indifferenza di coloro che fino a pochi giorni prima avevano messo la propria vita nelle mani di lei. Con il ritorno dell’eroe (il marito della protagonista, anche lui partigiano), la sua figura, la sua partecipazione alla resistenza vengono eclissate, al punto da spingerla quasi a dubitare di sé stessa e della realtà di quanto era avvenuto,  vittima di una forma antesignana di gaslighting autoindotto che lascia nel suo animo un disperato senso di frustrazione ed amarezza:

Anche con i compagni, ormai, non trovavamo più nulla da dirci: l’amicizia che fingevamo era fittizia: in realtà essi erano tornati ad essere gli amici di Francesco. Infatti, quando conducevano con loro un nuovo amico o compagno me lo presentavano dicendo brevemente «la signora Minelli» e già, trascinandolo pel braccio mentre costui avrebbe voluto indugiarsi in qualche frase di convenienza, lo presentavano a Francesco con una voce del tutto diversa. Poi illustravano le ormai famose avventure di mio marito. Io ero contenta che non accennassero alle modeste missioni che io avevo compiuto: poiché, per me, esse possedevano un valore assolutamente personale e mi infastidiva che altri ne disponesse liberamente. Tuttavia mi veniva fatto di sospettare che le bombe che avevo portato io fossero false: se solamente quelle che gli uomini avevano portato rappresentavano un pericolo; dubitavo del contenuto dei manifesti; ricordavo che i messaggi erano per lo più frasi insulse, simili a quelle che si trovano nelle grammatiche di una lingua straniera. Non significavano nulla, forse; incominciavo a credere che fossero stati preparati al solo scopo di beffarmi. Ma, se anche fossero stati falsi, ciò non avrebbe avuto importanza; io li avevo portati con la stessa paura, avevo ugualmente accettato di correre quel rischio. 

«E ora tutti eravamo qui, tutti ugualmente salvi, tutti scampati»; ma con i liberatori che tornavano a riscoprirsi maschi  e che per paradosso ripristinavano senza alcuna remora l’ordine costituito dei rapporti di forza, che li riconfermava – per citare Orwell – sempre e comunque più uguali degli altri. All’autrice non resta dunque che prendere amaramente atto di come per l’Italia , e soprattutto per le donne, la Liberazione sia stata in fondo una promessa tradita, che non ha avuto comunque il potere di scalfirne l’individualità peculiare che le rende irriducibilmente altre rispetto alla causa vincitrice del mondo maschile:

(…)Con gli anni mi è sembrato di scoprire quanta illusione è nel termine stesso libertà.[…]Ho visto l’Italia perdere la propria indipendenza nel 1945 in nome di una libertà di cui io mi domando il senso oggi (…)Io mi domando anche qual senso abbia l’amore e se parlarne non sia un’ipocrisia o una prova di debolezza. Posso dire che in una donna anche dalle vicissitudini più deludenti la forza dell’amore emerge sempre come da una fonte inestinguibile.


RISORSE E NOTE A MARGINE

– Le enfasi grafiche nelle citazioni (corsivi e grassetti) sono mie;

– E’ stata qui effettuata la scelta di riportare citazioni esclusivamente relative alle vicende storiche comprese tra il bombardamento della città e la sua liberazione non alla trama del romanzo, un capolavoro assoluto del nostro Novecento, per lasciare intatto il piacere della lettura dell’opera- che davvero, davvero meriterebbe di essere letta da ogni donna e di essere inclusa di diritto nel canone delle opere imprescindibili…..ma questa è ben altra questione che tuttavia allontanerebbe troppo (?) dall’argomento di questo post;

– Al romanzo di Alba de Céspedes ed in particolare alla sua partecipazione e posizione sulla Resistenza sono dedicati in rete parecchi contributi; ricordiamo qui la recensione  a firma di Giosuè David su La Falla  e l’invito alla lettura del romanzo pubblicato da Alessia Martoni su Critica letteraria 

-Il contributo di Rai Cultura all’approfondimento della figura e dell’opera dell’autrice;

– L’articolo a firma di Annalisa Camilli, pubblicato su Internazionale e dedicato al ruolo rimosso  delle donne nella Resistenza, che cita peraltro l’opera della storica Simona Lunadei e la testimonianza di Carla Capponi;

-La rilevanza del ruolo delle donne della Resistenza romana, viene giustamente esplicitata e sottolineata  nella sala  a loro dedicata del Museo della Liberazione di Roma, un tempo sede già sede delle famigerate celle di detenzione  di via Tasso, e vi si sottolinea come sia stato proprio grazie a loro che l’occupazione tedesca  non sia riuscita a realizzare il piano di sottomettere e piegare la città, anche  e soprattutto moralmente.

L’amore che salva. La Commedia e le Metamorfosi 

 

 

Per aspera ad astra.Il motto latino sarebbe più che sufficiente a sintetizzare la vicenda del poema dantesco (la vicenda, si basi, perché, come sosteneva Mandel’stam , straordinario conoscitore della Commedia,  non esiste vera poesia che sia riducibile alla sua parafrasi). Ma potrebbe anche sintetizzare, per intero, l’opera di Apuleio, in cui la discesa agli inferi di Psiche trova più punti di consonanza con il viaggio dantesco. Non è questa, ovviamente, la sede, per illustrare tutte le possibili corrispondenze tra le due opere, peraltro ampiamente frequentati da critici e specialisti di alt(r)o calibro; ma mi piace ricordare qui, come tardivo omaggio alla giornata a lui dedicata, un episodio della Commedia che crea un delizioso madrigale con la favola di Amore e Psiche.

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Non è questa la prima volta che ricordiamo la favola di Amore e Psiche su questo blog; e di certo a tutti sono note le terribili prove inflitte da Venere, la suocera gelosa e furibonda, alla misera Psiche, che ha l’unica colpa di aver fatto innamorare il  figliolo adorato e impenitente della dea. L’ultima di queste prove consiste nell’inviare Psiche negli Inferi: Venere sostiene di voler recupare la bellezza perduta a causa delle preoccupazioni per curare la ferita del figlio, per questo ordina a Psiche di chiedere a Proserpina un cofanetto che conterrebbe il più potente degli elisir di bellezza. Quando Psiche, sola, disperata ed incinta, sale su una torre determinata a suicidarsi, la torre la ammonisce a non commettere un sacrilegio e la esorta piuttosto a recarsi alle porte del Tenaro, presso Sparta, luogo d’ingresso negli Inferi. Ma un viaggio simile non si può compiere da sprovveduti; la torre istruisce pertanto la giovane ad equipaggiarsi per affrontare i pericoli che troverà, esortandola a portare con sé due monete e due ciambelle, le prime per pagare Caronte, le altre per placare la fame di Cerbero. La esorterà inoltre ad ignorare le tessitrici o l’asinaio zoppo che imploreranno il suo aiuto, e neppure le anime che la imploreranno di salire sulla barca :  a Psiche converrà esser villana con loro per non lasciarsi sfuggire di mano le ciambelle, senza le quali non può sperare di fare ritorno nel mondo della luce. Una volta giunta al cospetto di Proserpina, a Psiche non resterà che gettarsi umilmente ai suoi piedi e attendere che il cofanetto, in segreto, venga riempito. Ed ecco che, ormai compiuto il percorso a ritroso e ritornata a vedere la luce, la giovane non resiste, e convinta di apparire troppo sciupata per il suo Amore, apre il cofanetto in cui è contenuto un torpore di morte. La povera Psiche sarà salvata appena in tempo da Amore, che guarito dalla ferita e avendola perdonata per il tradimento, vola in suo soccorso e la risveglia pietoso e innamorato:

Sed Cupido iam cicatrice solida reualescens nec diutinam suae Psyches absentiam tolerans per altissimam cubiculi quo cohibebatur elapsus fenestram (3) refectisque pennis aliquanta quiete longe uelocius prouolans Psychen accurrit suam detersoque somno curiose et rursum in pristinam pyxidis sedem recondito Psychen innoxio punctulo sagittae suae suscitat (4) et: “Ecce” inquit “rursum perieras, misella, simili curiositate.

“Intanto, Cupido, guarito ormai dalla ferita che s’era rimarginata, non sopportando più a lungo la lontananza di Psiche, era fuggito da un’altissima finestra della stanza dove lo tenevano rinchiuso e, volando più veloce del solito sulle ali rinvigorite dal lungo riposo, accorse dalla sua Psiche. Premurosamente egli le dissipò il sonno che rinchiuse di nuovo dove era prima nella scatola, poi, appena pungendola con una sua freccia, ma senza farle del male, la svegliò: ‘Oh, povera cara,’ le disse ‘ecco che la tua curiosità stava lì lì per perderti un’altra volta.

Cupido si adopererà poi per porre definitivamente fine alle pene della sua amata, esortandola a recare a Venere il famoso cofanetto e rivolgendosi a Giove perché lo aiutasse a convolare a giuste nozze; ed è a quel punto che Psiche, bevendo dalla coppa immortale dell’ambrosia, ascende al cielo tra gli dei per essere in eterno la sposa di Amore. Con il risveglio dal sonno, dunque, il lungo percorso di Psiche verso Amore ha fine, mentre  quello di  Dante comincia.


All’inizio della Commedia Dante, risvegliato d’improvviso, si ritrova nella «selva oscura», in cui non sa  «ridire» come  sia entrato, tanto era «pieno di sonno»   quando ha abbandonato il sentiero della verità; certo, apparentemente si risveglia da solo, e pieno di terrore, un terrore accresciuto peraltro dal vano tentativo di ascendere al colle  e dall’incontro con le  tre fiere; è a quel punto che appare l’ombra di Virgilio, che dopo averlo ammonito circa l’inutilità dei suoi tentativi lo avverte della necessità di «tenere altro viaggio», assai più lungo e irto di pericoli, tra gli antichi spiriti dolenti  e poi tra le anime in penitenza fino ad ascendere alla sede dei beati e alla contemplazione divina. Dante, inizialmente si volge a seguire Virgilio pieno di slancio; ma prima di accedere al regno infernale è colto da dubbi e timori, che Virgilio dissipa rivelandogli che proprio Beatrice, la donna da lui invano amata e scomparsa prematuramente,  non ha esitato a discendere negli Inferi per salvarlo, angosciata anzi dall’idea di essersi mossa troppo tardi;

Lucevan li occhi suoi più che la stella; 
e cominciommi a dir soave e piana, 
con angelica voce, in sua favella:  (…)                                 57

 temo che non sia già sì smarrito, 
ch’io mi sia tardi al soccorso levata, 
per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.                             66

Or movi, e con la tua parola ornata 
  e con ciò c’ha mestieri al suo campare 
 l’aiuta, sì ch’i’ ne sia consolata.                                      69

  I’ son Beatrice che ti faccio andare; 
  vegno del loco ove tornar disio; 
   amor mi mosse, che mi fa parlare.   

 

Beatrice, dunque -certo per volontà della beata Vergine e per intercessione di Lucia, – invoca il soccorso di Virgilio perché Dante si risvegli dal sonno; naturalmente questo risveglio, per il poeta, coinciderà, come si diceva, con l’inizio della prova e non con il suo compimento. Ma sarà il pensiero di Beatrice accorata per il suo destino tanto da apparire a Virgilio con gli occhi pieni di lacrime («li occhi lucenti lagrimando volse» a dargli il coraggio di affrontare il lungo percorso e le prove, anche terribili, che lo attendono:

Tu m’hai con disiderio il cor disposto 
sì al venir con le parole tue, 
ch’i’ son tornato nel primo proposto.   

E nel momento in cui la volontà di Dante è ormai orientata alla salvezza, il nuovo incontro con Beatrice e l’ascesa al cielo con lei saranno inevitabili; ciò che forse si tende a dimenticare, rapiti come siamo tutti dalla folgorante bellezza della poesia del Paradiso, è che Dante è in realtà stato salvato nel momento esatto in cui Beatrice è discesa in suo soccorso- e che, lei anima beata e ormai intangibile dalla miseria dell’inferno, non ha potuto evitare quelle lacrime d’amore (nel senso più alto del termine, ovvero quell’accoramento che tutti proviamo quando si tratta della salvezza di chi ci è caro).

 


RISORSE E NOTE A MARGINE

-Il testo integrale con traduzione della favola di Amore e Psiche, a cura di Nunzio Castaldi;

-Il testo integrale del canto II della Commedia , con analisi e commento;

-Non sono mai riuscita ad mmaginare la Beatrice dantesca con volto altro che non fosse  il volto riproposto da Botticelli nelle sue infinite varianti, da Venere alla Vergine (quello che “presto” qui a Beatrice è in realtà ripreso dalla Madonna della melagrana) L’ultima immagine fa invece parte della serie di illustrazioni per la Commedia,  che l’artista realizza su commissione di Lorenzo de’ Medici

LA PESTE ( 2.0). Pietro Verri e Alessandro Manzoni

Come è purtroppo noto a tutti, il nostro paese si sta trovando in queste ore- in poche ore- ad affrontare unemergenza sanitaria di inaudita contagiosità e virulenza; la sostanziale ubiquità e simultaneità del mondo globale ha fatto sì che anche in Italia il COVID- 19 (questo il nome scientifico del virus) sia arrivato e si stia diffondendo in tempi rapidissimi . Il Consiglio dei ministri ha nelle ore recenti predisposto un decreto con le misure cautelari necessarie ad impedire il più possibile il propagarsi del contagio, che già in (troppo) numerosi casi si è  rivelato letale ( e il fatto che le vittime avessero un’età avanzata o altre patologie preesistenti non diminuisce certo la tragicità del dato, quando ci si ricordi che di esseri umani si tratta, e non di numeri). Poiché, purtroppo, il primo focolaio è stato isolato in Lombardia (seguita praticamente subito  da Veneto, Piemonte  ed  Emilia Romagna),risulta inevitabile che il pensiero corra alle pagine di  Pietro Verri e di Manzoni dedicate alla pestilenza del 1630 che pure colpì Milano e si diffuse in Piemonte e nella Repubblica di Venezia,  non fosse altro che perché sono pagine che tutti abbiamo sfogliato sui banchi di scuola; il motivo del richiamo ai nostri autori, però, non vuole essere qui speculazione di cattivo gusto o contributo all’alimentazione della psicosi collettiva: il  coronavirus non è la peste e l’Italia del 2020  ha ben altri strumenti e protocolli di cura e prevenzione rispetto a quelli esistenti quattrocento anni fa. Senza quindi entrare nel merito di qualsivoglia giudizio medico-scientifico o politico, che evidentemente non ci compete, volevamo riflettere qui sullo sgretolamento di ogni patto sociale e sulle forme di panico di massa da cui questo tipo di emergenza  sembra essere invariabilmente accompagnato; con il dilagare, prima ancora che del virus, di ogni forma di abuso e di violenza rivolta ai presunti untori , la cui individuazione (arbitraria) è immancabile e, come mostrano le cronache, di molto precede la ratio della prevenzione e della cura.

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La viltà del rifiuto. Orazio e Cesare Pavese

 

O Pompeo, primo dei miei amici, che spesso corresti con me il pericolo estremo nell’esercito di Bruto, chi ti restituì Quirite agli dei patrii e al cielo d’Italia?

 Con te, spesso trascorsi tra le coppe le lunghe giornate, incoronandomi il capo lucido di malobatro sirio; e con te, abbandonata alquanto vilmente la parmula,  provai la rotta sfrenata di Filippi, quando i valorosi furono sconfitti e gli spavaldi batterono il mento nella polvere sozza. […]

Quando si accosta ad Orazio facendone prova di traduzione con l’asprezza maldestra dell’adolescenza, Pavese non può immaginare che, esattamente mille anni dopo battaglia di Filippi, ,  anche a lui toccherà assistere alla guerra fratricida   che insanguinerà l’Italia fino alla Liberazione, e in cui moriranno molti dei suoi amici più cari.  L’immagine dell’Ode II,7 in cui Orazio rievoca l’abbandono dello scudo come simbolo della sua diserzione   tormenterà Pavese per sempre, fino alla sua ultima raccolta, quando di quei versi si ricorderà per provare a dar voce a quel «vecchio rimorso» che lo accompagnerà fino alla fine.

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La Risiera dell’infamia. Daša Drndić e Claudio Magris

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In occasione del Giorno della Memoria, commemorazione sempre più dolorosa e al tempo stesso sempre più necessaria, si parlerà qui, tardivamente, di due grandi libri, usciti tre anni fa, a poca distanza l’uno dall’altro: Trieste, di Daša Drndić e  Non luogo a procedere, di Claudio Magris,  che condividono la tematica degli orrori, accaduti non (solo) ad Auschwitz o Sobibór o Lublino, o Mathausen, ma nel campo di sterminio italiano, la Risiera di San Sabba, alla periferia di Trieste, quando la città apparteneva all’Adriatische Künstenland, e sul suo territorio giunse lo zelo malato di Christian Wirth a portare la propria esperienza dai campi di Lublino e Treblinka che grazie a lui funzionavano a pieno regime. Entrambi i romanzi– che vanno a costuire forse non involontariamente, un vero e proprio dittico–  sono costruiti attorno a due ricerche parallele sull’orrore, volte a ricostruire, a svelare finalmente tutti gli aspetti più reconditi di quella vicenda atroce, a liberarla finalmente da quella rete di omertà e reticenza in cui la gloriosa ricostruzione morale e civile postbellica l’aveva imprigionata, sperando di averla per sempre messa a tacere .

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STORIE D’UN IMPIEGATO. PIRANDELLO E HERMAN MELVILLE

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Il titolo qui proposto, preso ovviamente in prestito- a (s)proposito ma non troppo- dallo splendido album di Fabrizio De André, unisce due autori che non potrebbero essere più diversi e distanti (nello spazio prima ancora che nel tempo), ma che hanno conosciuto entrambi la dolorosa esperienza della declassazione e che hanno saputo fare di due impiegati piccoli piccoli  il simbolo della protesta contro un sistema che schiaccia ogni cosa inesorabile, elevando all’altezza di una condizione tragica  la  loro – e la propria-  miserabile esistenza.

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Gabbiani/1 . Svevo, Čechov……

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I gabbiani, i  signori del mare che vivono «balenando in burrasca», costituiscono un simbolo ricorrente nella letteratura e nella prosa europea del Novecento, come messaggeri della tempesta pronta ad abbattersi  sulle storie e sulla Storia, sul destino dei personaggi  come su quello dei loro autori. (altro…)

La Bella, la Bestia e l’Asino. Quella favola de « I Promessi Sposi»

Certamente a tutti sarà capitato i notare che, curiosamente, quando pensiamo a I Promessi Sposi, difficilmente i primi personaggi ad affacciarsi alla nostra mente saranno i due protagonisti. Anzi, Renzo 1319388613e Lucia mantengono per tutta la lunghezza  del romanzo un carattere quasi inafferrabile, nonostante li seguiamo puntualmente nelle loro vicende (il sopruso di don Rodrigo,il mancato matrimonio, la notte degli imbrogli, l’arrivo di Renzo a Milano, il rifugio di Lucia in convento, la rivolta dei forni, la fuga di Renzo e il rapimento di Lucia, la peste, il lazzaretto e il matrimonio) e siamo anche messi continuamente al corrente dei loro pensieri. Eppure, le immagini che per prime si affacciano alla mente quando pensiamo al romanzo non sono le loro. Sono, verosimilmente, i ritratti di Padre Cristoforo, di Gertrude, e forse, più ancora di tutti, dell’Innominato.Senza contare che anche se tecnicamente i due giovani vengono separati, e dovranno affrontare mille peripezie prima di ritrovarsi e poter felicemente convolare a giuste nozze, la storia di Renzo e Lucia non ha nulla dello stereotipo romantico, mostrando invece un realismo sano e pragmatico, un affetto sincero ma schivo e ruvido.  Escludendo evidentemente che Manzoni abbia peccato di imperizia nel rendere personaggi a rigore  secondari più memorabili ed esemplari dei protagonisti,val forse la pena di provare ad immaginare una risposta diversa. Avanti, dunque,se ne avrete la pazienza, con la speranza che questa lettura della fabula manzoniana non vi dispiaccia troppo.

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La solitudine dei numeri secondi. Orazio, Petrarca e la “Sindrome di Salieri”

 

Oltre trent’anni fa, ormai – nel 1982-,il regista Miloš Forman, nel suo film Amadeus,  creava una delle più immortali metafore dell’invidia. La lettura del film, non si sa quanto attendibile storicamente, ruota tutta attorno alla rivalità concepita da Salieri nei confronti di Mozart, arrivando addirittura ad ipotizzarne una complicità nella morte del compositore, avvenuta in circostanze mai chiarite. Ebbene, anche quella che qui si propone è una lettura analoga, un divertissement inattendibile, su due dei massimi poeti fondatori della  tradizione poetica occidentale affetti anche loro, con parecchi secoli d’anticipo, dalla «sindrome di Salieri». Incredibile dictu,lo so;  eppure i sintomi ci sono tutti.download-8


Quelli dei miei dodici virgola cinque lettori che avessero mai frequentato il liceo, o si siano mai dilettati di aprire un manuale di letteratura italiana – o qualsiasi altro sussidio didattico tra le miriadi di siti che ogni giorno ripopolano l’universo di Internet-, certamente si saranno sorbiti le solite formulette appiccicate ai sommi poeti in questione come mantra: dissidio interiore, funestus veternus, strenua inertia. L’inquietudine di Orazio, incostante come una banderuola,ventosus, che a Roma ama Tivoli e a Tivoli Roma; e Petrarca, che pace non trova et non ha da far guerra . Di più : Petrarca che fedelmente ripercorre l’ossessione di Orazio per il tempo che passa, e l’incombere inesorabile della morte (Eheu fugaces, Postume, Postume /labuntur anni; La vita fugge e non s’arresta un’ hora). 

Eppure entrambi erano quanto di più vicino possiamo immaginare alla figura dell’intellettuale di successo. Orazio era amico intimo di Mecenate; aveva ricevuto da lui un podere in Sabina, a Tivoli, la futura sede della residenza imperiale; ha ricevuto da Augusto la proposta di diventare segretario personale, che ha rifiutato; ha raggiunto il vertice della gloria poetica con il Carmen Saeculare, davanti all’intera Roma in giubilo e al pontifex che scandiva l’ascesa al Campidoglio assieme alla vergine vestale. L’auspicio dell’Ode III, 30, ovvero della realizzazione di un monumento più duraturo del bronzo che l’innumerevole fuga degli anni non avrebbe potuto scalfire apparirebbe dunque pienamente realizzato. Missione compiuta.

Petrarca, dal canto suo, è un intellettuale europeo, anzi il primo intellettuale europeo del mondo delle corti. Viaggia in tutta Europa, è precursore dell’Umanesimo. E’ celebre, famoso. Sulle orme di Orazio, ancora una volta, viene incoronato poeta sul Campidoglio. Tocca dunque anche lui le stelle con  il suo capo -con un dito.

E dunque?


Orazio era stato presentato a Mecenate da Virgilio. I due poeti si erano conosciuti alla scuola di Posillipo, gestita dall’epicureo Sirone. Fanno amicizia, viaggiano insieme- fino a Brindisi; Orazio riconosce immediatamente la grandezza poetica di Virgilio- guai a chi glielo tocca, potrebbe rischiare la maledizione di un naufragio. Virgilio non è l’unico poeta del circolo; accanto a lui ci sono Cornelio Gallo e Vario Rufo.  L’armonia tra loro regna sovrana, almeno secondo quanto ribatte Orazio al celebre scocciatore della Satira I,9, in cui qualcuno ha voluto riconoscere, probabilmente con ragione, il giovane Ovidio  che peraltro si mostra scettico su tanta sbandierata concordia. (Gallo morirà in circostanze mai del tutto chiarite, forse suicida, di certo in disgrazia presso il princeps).

Virgilio viene incaricato da Mecenate, e dunque in realtà da Augusto, di scrivere il poema di Roma. Di celebrazioni, egli ne sa qualcosa: Il modello più immediato è Ennio, il grande poeta epico della conquista del Mediterraneo, che considerava sé stesso reincarnazione dello stesso Omero. Ma i tempi sono cambiati. Tra Ennio e Virgilio c’è l’immenso bagno di sangue di oltre un secolo di guerre civili: i Gracchi, Mario e Silla, Cesare e Pompeo, gli squadroni della morte di Clodio e Milone,  Ottaviano e Antonio prima uniti contro Bruto e Cassio, i cesaricidi, poi  nemici mortali in una guerra terribile che esaurisce le forze e le risorse di una popolazione stremata; fino a che non ne resta uno solo, che ha fretta di cancellare  il rosso del sangue con il bianco del marmo, del rinnovato splendore dell’aeterna urbs. Manca solo il grande poema epico che canti le magnifiche sorti e progressive di Roma, l’inevitabilità del Fato, del destino che vede l’Urbe regnare sull’Orbe per volere di Giove.Virgilio, inaspettatamente, ribalta la prospettiva: Enea non è più l’uomo del destino, quanto piuttosto, il burattino degli dèi. I suoi sentimenti più profondi, le sue memorie familiari, il suo lutto, la sua disperazione per Troia in fiamme, per la stirpe di Priamo cancellata, sono crudelmente ignorate, calpestate, derise. Egli viene iactatuimagess, sbattuto qua e là, come un relitto alla deriva- cosa che egli è davvero, nel profondo del suo animo (a Didone dirà: se solo fossi,  potessi essere libero di scegliere, tornerei indietro,a piangere i miei morti e la rovina della rocca di Priamo). L’affresco che illustra la tragedia di Troia nella reggia di Cartagine, dove egli arriva straniero e ospite, lo commuove (sunt lacrimae rerum, il verso più straziante del poema per chiunque sappia cosa significa memoria familiare).Enea vedrà troppi morire per una causa che egli non comprende, e anche lui, alla fine del poema, si trasforma nell’eroe spietato, che vorrebbe  risparmiare la vita di Turno ma che poi, colpito da amentia in maniera non dissimile da Orfeo, lo trafigge spedendone l’anima sdegnata tra le ombre.  Quando Virgilio ha completato il poema, di ritorno a Brindisi dall Grecia,  vorrebbe bruciarlo, e supplica gli amici Plozio e Vario di impedirne la diffusione dopo la sua morte – perché non ne aveva terminato la revisione; in realtà,più verosimilmente, perché era consapevole di cosa fosse veramente l’Eneide. Ma il princeps salverà l’opera. Sa infatti che  l’Eneide sarà destinato ad essere per sempre il poema di Roma, anche se- proprio perché –  ricorda soprattutto di lacrime grondi e di che sangue il suo imperium.

Quando Virgilio muore, nel 19 a.C. a Brindisi, Roma si trova ormai alla vigilia della celebrazione dei Ludi saeculares, i giochi celebrati in obbedienza alla tradizione  indicata dai libri sibillini, che celebrano, ogni cento anni, l’anniversario della fondazione di Roma. Nella lunga celebrazione dei sacrifici, il giorno del 3 giugno, dopo i sacrifici a cui presiede lo stesso Augusto in veste di pontifex maximus, un coro di ventisette fanciulli e ventisette fanciulle intona ad Apollo e Diana un lungo carme in cui esprimono il voto che mai sotto il Sole possa sorgere nessun imperium più grande e splendido di quello di Roma. L’autore del Carmen  (Saeculare ) è Orazio, il quale non manca, nell’ultima strofe, a mo’ di sigillo, di legare alla  vuona novella della grandezza di Roma il proprio nome:

Haec Iovem sentire deosque cunctos 
spem bonam certamque domum reporto, 
doctus et Phoebi chorus et Dianae 
dicere laudes.

Non è la prima volta,del resto, che Orazio sente il bisogno di sottolineare la propria eccellenza poetica, soprattutto come scrittore dei Carmina. Conclude così l’Ode I,1, la dedica a Mecenate, con cui egli dichiara all’amico che, se egli vorrà porlo tra il numero dei poeti, egli si innalzerà fino a toccare le stelle con il capo:

Quod si me lyricis vatibus inseres,
sublimi feriam sidera vertice.

E vi ritorna nell‘Ode III,30, quando proclama orgogliosamente di aver innalzato un monumento più duraturo del bronzo e più alto del regale sito delle Piramidi, che né la furia degli elementi né l’inarrestabile fuga del tempo potranno scalfire; ma soprattutto, ribadisce che la sua gloria si rinnoverà  di novella fronda presso i posteri  (crescam laude recens) fino a quando il pontefice (dunque Augusto!) ascenderà al Campidoglio assieme alla vergine vestale (dum Capitulium/ scandet cum tacita virgine pontifex) – vale a dire per sempre,e, saldando l’immagine religiosa a quella della gloria poetica, chiede a Melpomene di  non farsi pregare per  incoronarlo poeta:

Delphica / laude cinge volens, Melpomene, comam

L’Ode III,30 chiude dunque i primi tre libri delle Odi, composti ed interpretati unitariamente. Alla richiesta a Mecenate si sostituisce l’orgogliosa autoproclamazione. Ma perché insistere?  Mecenate, forse, si era rifiutato di riconoscerlo tra i lyrici vates? Certo che no; pure, l’incarico di comporre l’Eneide era stato affidato ad un altro; né si può dire che Virgilio avesse una maggiore vocazione epica, avendo anch’egli praticato due generi come l’ecloga e la poesia didascalica, sulle orme di Teocrito ed Esiodo (e, tra le righe, di Lucrezio), non certo di Omero; ma Orazio ha combattuto a Filippi dalla parte sbagliata; troppo rischioso, dunque, affidare a lui il poema nazionale- o forse una sottile vendetta di Ottaviano, che pure, dopo la morte di Virgilio, gli chiederà di divenire suo segretario personale.Inoltre, sul tema politico, Orazio aveva già composto lEpodo VII, ferma condanna delle guerre civili successive alla morte di Cesare e al rinnovarsi della tradizione fratricida da cui Roma ha avuto origine, molto più diretto ed esplicito rispetto alla Bucolica I di Virgilio, che allude più sommessamente al dramma dei profughi a seguito dell’espropriazione delle terre, dalla quale egli stesso, per intercessione – probabile- di Asinio Pollione presso Ottaviano, era stato miracolosamente risparmiato.

Orazio, dunque, si è visto preferire Virgilio. Non stupisce, dunque, il funestus veternus, che lo porta ad arrabbiarsi con gli amici e a perseverare nei comportamenti dannosi per la sua salute; non stupiscono la strenua inertia, la tormentosa inquietudine, non stupisce il cupo pessimismo del libro IV delle Odi, scritto dopo il 19, che alla smaccata laude di Augusto alterna la consapevolezza dell’inanità dei propri sforzi (Immortalia ne speres); quando anch’egli discenderà nell’Ade, sulle orme di Orfeo e di Enea (e nel corpus delle Odi c’è un numero elevatissimo, direi quasi ossessivo, di allusioni alle catabasi virgiliane), la sua opera,  non sarà più, sgretolata dall’oblio, che pulvis et umbra: il monumentum aere perennius è destinato ad essere quello scritto da un altro.


Quando Petrarca inizia a concepire la sua raccolta di liriche in volgare, Rerum vulgarium fragmenta  opera a noi più nota e cara come Canzoniere, Dante è già morto da quasi vent’anni, e la Commedia è l’opera più famosa  del suo tempo- e forse non solo- nell’Europa medioevale. Il poema conosce una diffusione immediata e trasversale: le copie vengono vergate di continuo, destinate a diventare, molti secoli dopo, la croce (e la delizia) dei filologi, che si affaticano nella ricostruzione della lectio d’ autore-complicata, come è
noto, dalla mancboccaccio-headanza del testo autografo. Tra  i più ferventi ammiratori dell’opera dantesca- della sua intera produzione, in genere, e della Commedia in particolare- è a lui, infatti, che si deve l’ormai inseparabile attributo “divina”-, c’è Giovanni Boccaccio: la conoscenza profonda e le allusioni continue all’opera di Dante sono evidenti già nelle sue prove giovanili, per divenire via via più esplicite nel Decameron (tra innumerevoli, citiamo la più ovvia: il numero delle cento novelle corrispondenti ai cento canti della Commedia). Ma Boccaccio ha un ruolo del tutto peculiare non soltanto come fruitore, ma anche come diffusore e promotore dell’opera dantesca;  verga di propria mano tre copie del poema (del tutto inaffidabili sul piano filologico a causa dei continui interventi del copista sul testo incerto), scrive un   Trattatello in laude di Dante e, negli ultimi anni della sua vita, terrà a Firenze una serie di lezioni pubbliche sull’Inferno  (la morte non gli consentirà di proseguire oltre il canto XVII). Tuttavia, Dante non è l’unico poeta nei pensieri e nel cuore di Boccaccio,che fin dagli anni Quaranta aveva sentito parlare  del giovane favoloso giunto ad Arquà dalla Provenza; e dopo la stesura del Decameron,  che lo lascia profondamente insoddisfatto ed in preda ad una profonda crisi spirituale (paragonabile a quella vissuta da Tasso due secoli dopo), vede in Petrarca il praeceptor in grado di mostrargli la diritta via  verso l’ascesi, eglicastagno_06b che con tanto rigore aveva rifiutato, nel Secretum,  qualsiasi concessione al fascino secolare, compresa la cultura classica. Quanto alla gloria poetica, le credenziali del Petrarca erano massime, essendo egli stato incoronato poeta in Campidoglio l’8 Aprile 1341, con il rinnovo ad personam dell’antico rituale romano.Non è azzardato forse ipotizzare che Petrarca abbia preferito Roma a Parigi (che pure gli aveva rivolto l’invito per l’incoronazione poetica) proprio per ribadire la continuità con la tradizione poetica classica, anche se la versione ufficiale che egli presenterà al mondo, nell’Epistula Posteritati di cui parleremo più avanti, sarà di aver scelto Roma su consiglio del cardinale Giovanni Colonna, in virtù della sua autorità di capitale religiosa («romane urbis autoritatem omnibus preferendam statui»).


L’incontro con Petrarca avviene a Firenze nel 1350, quando il poeta si stava dirigendo alla volta di Roma per il Giubileo indetto da Clemente VI ; l’ammirazione di Boccaccio per Petrarca era di lunga data, e si era già espressa artisticamente da oltre dieci anni  nell’epistola Mavortis miles  e nella biografia encomiastica  De vita et moribus  dominis Francisci Petracchi ;a questo primo incontro ne seguiranno altri sei, integrati da una fitta corrispondenza e da un dialogo intellettuale che continuerà, quasi ininterrotto, fino alla morte di Petrarca. Boccaccio non può non condividere con il suo amico e maestro l04_triv_if‘ammirazione per la Commedia  e nel 1351,di ritorno a Firenze da un loro incontro a Padova (dove Boccaccio inutilmente aveva offerto al poeta una cattedra nello Studio fiorentino), invia a Petrarca un codice vergato di sua mano, il Vaticano Latino 3199   contenente il testo del poema ed un carme dedicatorio. Ytaliae iam certus honos . Nello stesso anno  Petrarca lavorava ai Trionfi, (poema allegorico in terza rima, guarda caso), opera interrotta e poi ripresa successivamente, ma destinata  comunque a rimanere incompiuta per la morte dell’autore; e il biennio precedente (’49-’50) si era rivelato decisivo per la  fisionomia del  Canzoniere  , con la sua struttura bipartita tra rime in vita e in morte di Laura (evidente retaggio della Vita Nuova dantesca) e con la sua paradossale natura che continuamente chiede perdono di esistere così come esiste, ovvero come testimonianza dell’ irriducibile errore  rispetto alla  diritta via (tracciata appunto, fuor di metafora e non, dalla Commedia). Petrarca non mostra di aver particolarmente gradito il dono; anzi, ostenta  di non conoscere la Commedia e di condannarla pregiudizialmente per la scelta del volgare invece del latino (scelta in effetti prevista, com’è noto,  per il progetto iniziale del poema). Com’è ovvio, Petrarca nega l’evidenza; Michele Feo, curatore della voce“Petrarca” nell’Enciclopedia dantesca,  dimostra con numerosi e notevoli esempi come il  Canzoniere sia  fittamente intessuto di continui rimandi alla Commedia:

L’imitatio del P. sarebbe per gli ultimi indagatori un evocare disinteressato della memoria, un riaffiorare naturale, spontaneo […]La presenza della Commedia nel Canzoniere sarebbe dunque soprattutto inconsapevole. Eppure certe incastonature a frammenti come ” Spirto felice che sì dolcemente / volgei quelli occhi, più chiari che ‘l sole, / et formavi i sospiri et le parole, / vive ch’anchor mi sonan ne la mente ” (CCCLII 1-4), per cui cfr. Pg II 113-114 cominciò elli allor sì dolcemente, / che la dolcezza ancor dentro mi suona; oppure: ” fanno le luci mie di pianger vaghe ” (C l4), da If XXIX 2-3 avean le luci mie sì inebrïate, / che de lo stare a piangere eran vaghe; od operazioni di calco come ” né sì né no nel cor mi sona intero ” (CLXVIII 8) sul che sì e no nel capo mi tenciona di If VIII 111 (dove solo la preconcetta cavillosità può appellarsi alla ” lingua del tempo ” [Melodia]); o, ancora, l’esatta identità di nessi, in versi come ” et dopo questo si parte ella, e ‘l sonno ” (CCCLIX 71; cfr. anche Tr. Famae I [abbozzo] 10-11 ” il sonno e quella … / appena eran partiti “) da Pg IX 63 poi ella e ‘l sonno ad una se n’andaro (che non si può spiegare solo con la fonte comune antica, perché in Ov. Met. XV 25 e Virg. Aen. VIII 67 non c’è nulla più che una situazione somigliante),fanno pensare al P. che conosciamo, col libro alla mano in atto di controllare la citazione e annotarla rigorosamente[…] e viceversa occultarla abilmente nella propria personale ritessitura verbale di poeta

Prevedibilmente, inoltre, la presenza della Commedia  è anche più  evidente nei Trionfi, che con quella apertamente si misurano per  la struttura, la terza rima, l’argomento (vedi sotto, Risorse e Note a margine).Come si è detto, nel 1351 l’opera viene interrotta. Singolare coincidenza: il 1351 si rivela una data cruciale nella biografia poetica e intellettuale di Petrarca,un anno che, per più aspetti, è possibile definire critico. Sempre in quest’anno, infatti, Petrarca inizia a comporre  l’  Epistula Posteritati in cui si preoccupa di riscrivere essenzialmente la propria autobiografia spirituale minimizzando il  primo giovanile errore  di cui dichiara di essere stato impaziente di liberarsi,e presentando sé stesso come sempre teso verso la ricerca delle verità trascendenti. Curiosamente, la lettera si interromperà – per la sua morte- proprio nella narrazione degli avvenimenti del 1351, quando, dopo la morte del principe Iacopo da Carrara, suo protettore ed amico, Petrarca decide di lasciare Padova per fare ritorno in Francia,« incapace di trovare requie», non tanto per desiderio di rivedere quel luogo per l’ennesima volta quanto piuttosto «alla maniera degli ammalati, che cercano di trovare sollievo mutando posizione»:

redii rursus in Gallias, stare nescius, non tam desiderio visa milies revisendi, quam studio more egrorum loci mutatione tediis consulendi.

E qui ogni lettore si sarà ricordato, oltre che della strenua inertia oraziana, anche della metafora dell’ammalata con cui si conclude il canto VI del Purgatorio (148-151):

E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume, 150

ma con dar volta suo dolore scherma.

 Il dono di Boccaccio, dunque, sembra aver in qualche modo compromesso, come nota  Roberto Antonelli nella sua analisi de “I Rerum Vulgarium Firagmenta di Francesco Petrarca” ,«il dialogo privato» di Petrarca con Dante, costringendo in qualche modo Petrarca a riconoscere proprio nel Dante della Commedia « il grande modello dei RVF,dichiarato…soltanto per singoli frammenti, inconfessabile a livello di sistema, proprio per la complessità della stessa operazione agonistica dispiegata verso di lui», operazione che Petrarca «considerava troppo difficile da comprendere per chicchessia, Boccaccio compreso». Il silenzio di Petrarca in materia  sarà rotto soltanto otto anni dopo, nel 1359, con l’epistola indirizzata a Boccaccio (Familiares, XXI, 15), per scagionarsi «dalle calunniose accuse rivoltegli dagli invidiosi» (purgatio ab invidis obiecte calumnie). Chi siano poi questi invidiosi non è chiarito, e proprio la ragion d’essere della stessa, così come indicata da Petrarca, ha tutto il sapore  dell’excusatio non petita:  Petrarca, infatti, non solo protesta che Boccaccio gli fa torto a crederlo invidioso nel sentir tessere le lodi di Dante, che lui odierebbe,ma si difende dalle accuse  degli invidiosi che lo accusano di  non aver mai voluto leggere la sua opera per invidia nei confronti di Dante e del suo primato nella poesia in volgare. E qui, Petrarca si spinge davvero a sfidare l’intelligenza del suo interlocutore, come di noi lettori, quando giura e spergiura che, se non lo ha fatto, è solo perché avrebbe finito  con l’intessere  la propria opera poetica di citazioni e rimandi a quella dantesca (!!), arrivando addirittura ad affermare che se nella sua opera si ritrovano allusioni e citazioni queste non si spiegano con il proposito di imitare Dante, ma soltanto con il fatto che egli si sarebbe trovato inconsapevolmente a ripercorrere le orme di Dante per affinità di ingegno, come vuole Cicerone (!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!). E, non contento, supplica Boccaccio [finissimo conoscitore dell’opera di Dante come di quella dello stesso Petrarca, si badi], se mai può credere in qualcosa, di credere a questo, perché non c’è niente di più vero:

Hoc unum non dissimulo, quoniam siquid in eo sermone a me dictum illius aut alterius cuiusquam dicto simile, sive idem forte cum aliquo sit inventum, non id furtim aut imitandi proposito, […], sed vel casu fortuito factum esse, vel similitudine ingeniorum, ut Tullio videtur, iisdem vestigiis ab ignorante concursum. [13] Hoc autem ita esse, siquid unquam michi crediturus es, crede; nichil est verius.

E’ difficile capacitarsi che parole simili siano state scritte da una tale altezza d’ingegno con la pretesa  di essere creduto (Petrarca, peraltro, più avanti ammette una ricezione e una fruizione più consapevoli del testo dantesco nella maturità);  molto più interessante, per contro,  è l’affermazione di essere, ad onta dei suoi detrattori,l’ unico a comprendere davvero la qualità poetica del verso dantesco, cosa che a loro era preclusa« a causa dei loro ingegni ostruiti»:

cum unus ego forte, melius quam multi ex his insulsis et immodicis laudatoribus, sciam quid id est eis ipsis incognitum quod illorum aures mulcet, sed obstructis ingenii tramitibus in animum non descendit.

salieriProprio come Salieri, a suo modo, era colui che più profondamente- e dolorosamente- degli altri aveva avuto l’infausto privilegio di comprendere la grandezza divina della musica di Mozart. Il malinconico epilogo della vicenda (quale lo apprendiamo ancora da  Michele Feo ) si ritrova in un’altra lettera più tarda al Boccaccio, (Seniles, V,2), nella quale, in relazione al canone degli autori in volgare stilato da Meneghino Mezzani, il ” vecchio ravennate”, che assegnava a Boccaccio il terzo posto e a lui il secondo, Petrarca, rimproverando l’amico per aver avuto l’intenzione di bruciare i propri testi in volgare, lo esorta a non peccare di superbia e ad accettare il proprio posto anche quando questo non sia il primo, e si dichiara disposto a cedergli il proprio secondo posto, contento di rivendicare a sé il primato nella poesia latina. Il primo posto nella nuova letteratura è di Dante, finalmente riconosciuto anche da Petrarca  come«ille nostri eloqui dux vulgaris»,  il principe della nostra lingua,che, come  poeta sovrano, sovra gli altri com’aquila vola. 



RISORSE E(T)  NOTE A MARGINE

Corsivi, grassetti, traduzioni e riduzioni dei testi in latino sono miei;

-La sindrome di Salieri  del titolo voleva, nelle intenzioni, essere un’ iperbole. Scopro invece che diversi siti, si sono occupati della questione precisamente in questi termini ( a me è piaciuto molto questo , che nella scelta delle immagini sottintende e suggerisce come molti, anche insospettabili, ne fossero affetti);

-Il destino di eterno secondo di Orazio sembra- involontariamente- essere stato sancito persino da Dante, che nella compagnia di poeti che seguono, gli assegna il piazzamento d’onore alle spalle di Omero, e prima di Ovidio e Lucano (Inferno, IV 88-90):

quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano. 

-La questione della profonda e capillare influenza dell’opera dantesca sui Rerum vulgarium fragmenta  è analizzata e approfondita da Sandro Bertelli, La tradizione  e il testo del carme “Ytaliae iam certus honos”in  Studi sul Boccaccio n.41, 2013  [NB – Per leggere il testo è necessario registrarsi e caricare un proprio documento]

-Sulla capillare diffusione dei rimandi alla Commedia nei Trionfi, nota ancora Michele Feo:

Numerose sono le iuncturae dantesche dissimulate: es. ” dolce riso ” (Tr. Mort. II 86), da disïato riso (If V 133); ” dolce e pio ” (Tr. Mori. II 185), da tristo e pio (If V 117); ” tra’ fiori e l’erba ” (Tr. Cup. I 90) da tra l’erba e’ fior (Pg VIII 100). Qualche verso ha l’aria di un vero e proprio calco: ” onde altrui cieca rabbia dipartillo ” (Tr. Famae I 63), da là onde ‘nvidia prima dipartilla (If I 111); ” di poca fiamma gran luce non vène ” (Tr. Cup. II 21), da poca favilla gran fiamma seconda (Pd I 34); ” tal che l’occhio la vista non sofferse ” (Tr. Cup. II 138), da che l’occhio stare aperto non sofferse (Pg XVI 7; cfr. anche Pd III 129); ” O ciechi, el tanto affaticar che giova? ” (Tr. Mort. I 88), da O frate, andar in sù che porta? (Pg IV 127). Più spesso si tratta di riecheggiamenti meno pesanti, anche se nettamente trasparenti, come: ” Io non posso per ordine ridire ” (Tr. Famae III 28), da Io non so ben ridir (If I 10); ” Le sue parole e ‘l ragionare antico ” (Tr. Cup. I 49), da Le sue parole e ‘l modo de la pena (If X 64). Talora l’eco verbale risponde a un’identità di situazione: ” Dimmi, per cortesia, che gente è questa? ” (Tr. Cup. I 66) e che gent’è che par nel duol sì vinta? (If III 33); ” ‛ che pensi? ‘ disse ” (Tr. Cup. III 5) e mi disse: ” Che pense? ” (If V 111); ” la coppia d’Arimino, che ‘nseme / vanno ” (Tr. Cup. III 83-84) e quei due che ‘nsieme vanno (If V 74).

– L’argomento delle incoronazioni poetiche rimanda inevitabilmente il lettore contemporaneo al dissacrante libello di Thomas Bernhard dedicato ai premi letterari,e ai recenti avvenimenti relativi all’assegnazione del premio Nobel per la letteratura 

 

I treni del Tempo. W.G. Sebald e Claudio Magris

 

Reduce dalla rilettura di Austerlitz, l’ultimo romanzo (ma  il termine romanzo è riduttivo, specie per un autore che ha fatto del superamento del confine tra generi la propria cifra artistica) pubblicato da W.G.Sebald nel 2001, e a seguito di altre ricerche sulla sua opera anche tra critica e saggi non ancora pubblicati in italiano, mi ha felicemente sorpresa scoprire quale rilevanza abbia avuto per Sebald la lettura delle opere di Claudio Magris,  in particolare di Danubio , di cui Sebald  aveva recensito l’edizione tedesca a cura di Heinz Georg-Hend e a cui spesso allude anche nelle altre sue opere precedenti , come ad esempio Vertigini, ma del cui immaginario  proprio in Austerlitz si trovano molteplici e diffuse consonanze. (altro…)