La Risiera dell’infamia. Daša Drndić e Claudio Magris

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In occasione del Giorno della Memoria, commemorazione sempre più dolorosa e al tempo stesso sempre più necessaria, si parlerà qui, tardivamente, di due grandi libri, usciti tre anni fa, a poca distanza l’uno dall’altro: Trieste, di Daša Drndić e  Non luogo a procedere, di Claudio Magris,  che condividono la tematica degli orrori, accaduti non (solo) ad Auschwitz o Sobibór o Lublino, o Mathausen, ma nel campo di sterminio italiano, la Risiera di San Sabba, alla periferia di Trieste, quando la città apparteneva all’Adriatische Künstenland, e sul suo territorio giunse lo zelo malato di Christian Wirth a portare la propria esperienza dai campi di Lublino e Treblinka che grazie a lui funzionavano a pieno regime. Entrambi i romanzi– che vanno a costuire forse non involontariamente, un vero e proprio dittico–  sono costruiti attorno a due ricerche parallele sull’orrore, volte a ricostruire, a svelare finalmente tutti gli aspetti più reconditi di quella vicenda atroce, a liberarla finalmente da quella rete di omertà e reticenza in cui la gloriosa ricostruzione morale e civile postbellica l’aveva imprigionata, sperando di averla per sempre messa a tacere .

Sono riusciti perfino a far sparire per anni la Risieranessuno ne parlava mai, neanche gli antifascisti, nessuno ne sapeva niente, eppure era l’unico forno crematorio esistente intalia e nessuno ne sapeva veramente niente, questo è il tragico, erano riusciti a cancellare quella verità, quella realtà… Neanche il 25 aprile, nelle celebrazioni ufficiali, se ne parlava. Ricorrenze, commemorazioni sono arrivate, ma tardi. Adesso sì cerimonie e conferenze, non se ne può fare a meno, ma abbiamo dovuto attendere il processo per sapere, per essere coscienti di sapere quelle cose orribili, a casa nostra, sotto il nostro naso, cose nostre.

La prima domanda che il lettore di questi libri terribili si pone è come sia stato possibile, se da sempre sappiamo di Auschwitz, giungere ad una conoscenza così tardiva degli orrori della Risiera,  Eppure, è propro quello che è successo; la Risiera è stata di fatto estirpata dalla memoria storica del Paese; nei libri di storia, anche di chiaro Risiera-S.Sabba_-1024x768.jpgorientamento antifascista e comunista (si pensi al manuale di Rosario Villari) non ne viene fatta alcuna menzione. Eppure, come si legge nella sezione del sito del Museo dedicata alla sua storia, la Risiera è stata dichiarata monumento nazionale già dal 1965: con il decreto n.50 del 15 Aprile di quell’anno, l’allora Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat dichiarava «la opportunità che la Risiera di San Sabba in Trieste, – unico esempio di Lager nazista in Italia –» venisse  «conservata ed affidata al rispetto della Nazione per il suo rilevante interesse, sotto il profilo storico – politico;»  tuttavia, scrive la Drndić, «nel 1965 sono poche le persone che visitano la Risiera, perché la Risiera, all’epoca, è un luogo ancora trascurato, anzi, versa in stato d’abbandono, è un ricettacolo di ratti e tutt’intorno girano gatti randagi, dalle facciate screpolate esala l’odore di umidità e un’eco subdola la avvolge». Ci vorranno altri dieci anni perché venga risistemata, e altri undici perché, nel 1976, venga finalmente intentato il processo ai carnefici, a oltre trent’anni di distanza rispetto agli eventi.

«Forse solo in una città di matti come Trieste poteva nascere una personalità come la sua, bizzarra, eccentrica finché si vuole, così difficile da capire, ma grande»: è Diego de Henriquez.jpglo stesso Magris a dichiarare esplicitmente nella postfazione al romanzo, che il singolare protagonista della sua opera è liberamente ispirato al professor  Diego de Henriquez, singolare figura di intellettuale e collezionista triestino, che ha dedicato la propria esistenza alla raccolta di armi da destinare ad un Museo della Pace che le rendesse per sempre inoffensive:«Ares per Irene ovvero Arcana Belli. Museo totale della Guerra per l’avvento della Pace e la disattivazione della Storia.»  La costruzione del museo inizia nel 1967; sfortunatamente, il suo ideatore non potrà vederlo realizzato, perché troverà la morte nella notte del 2 Maggio 1974, nel capannone dove teneva racchiusi tutti i cimeli destinati al suo museo, e dove si trovava la bara che era solito utilizzare come letto. Il suo cadavere sarà rinvenuto carbonizzato. Gli inquirenti archivieranno poi il caso il 9 luglio dell’anno successivo, attribuendo l’accaduto al probabile malfunzionamento di un fornello elettrico; anche una seconda inchiesta, istruita per dare risposte- o meglio: mettere a tacere- le accorate insistenze della famiglia e dell’opinione pubblica abbia confermato l’incendio come accidentale e non come doloso. A tutt’oggi, le circostanze della morte di de Henriquez rimangono oscure;  Si dà il caso, però, che la tragedia  abbia preceduto di poco l’inizio del processo per i crimini di San Sabba, e che, secondo molti, il professore avrebbe scoperto qualcosa di  ben  più orribile dei crimini e dei criminali della Risiera: la lista degli esponenti della società civile triestina a vario titolo collusi e coinvolti nelle attività dei nazisti, mai ritrovata, ovviamente, nell’incendio (impossibile dire se sottratta o andata distrutta). E’ attorno a questa perdita, a questa assenza che ruota, come si vedrà, l’intero romanzo; nella finzione narrativa si immagina infatti che il protagonista (anonimo, nel romanzo), avesse recuperato quella lista solo dopo il compimento di un’ opera ben più ampia e terribile :

Intendo la documentazione delle scritte che dicono avesse copiato, almeno in parte, dai muri della Risiera di San Sabba.
Ancora una volta, la Trieste borghese, fascistoide, collaborazionista per vocazione anche quando non può collaborare, si è rifatta il trucco e si è lavata la faccia. Tutti rispettabili; in poche altre città d’Italia industriali, finanzieri, armatori, banchieri si sono esposti così esplicitamente, direi istintivamente – certo, anche prudentemente – a fianco dei fascisti e, quando è stato necessario, pure dei nazisti. Mollando pure qualcosa e più di qualcosa alla Resistenza, non si sa mai.

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Di quell’obbrobrio, di quella vecchia fabbrica di riso triestina dove i nazisti avevano massacrato o mandato al massaccro qualche migliaio di persone, nel silenzio generale protrattosi anche dopo la fine della guerra, si cominciava finalmente a parlare, fra l’imbarazzo di molti. Ed era in parte merito pure dell’accanimento di quell’uomo singolare, delle sue ricerche maniacali ma in quel caso illuminate dal furore del profeta adirato col suo popolo infame e desideroso di mettere a nudo l’infamia.

Tuttavia, il dato che spiazza  gli immancabili esperti postumi, per così dire, che  dopo la tragedia si trovano a dover parlare  tracciare un ritratto dell’uomo e della sua opera davanti ai microfoni della televisione di Stato, è  proprio quel furor  pervicace e ostinato con il quale, negli ultimi tempi, aveva perseguito il suo pietoso ufficio di copista del dolore, e che aveva generato quell’ostinazione implacabile nel voler scovare e punire i nomi di quegli altri responsabili. Aveva cominciato «in fondo tardi, e d’improvviso, a interessarsi a quelle scritte alla Risiera e nei suoi dintorni», perché, pur avendo iniziato a ricopiarle molto tempo prima, «era come se non si fosse accorto di cosa significassero», mescolate a disegni e scritte oscene copiati sui muri delle latrine (e non solo), e a qualsiasi banale residuo o scarto (biglietti dei tram, tappi  di bottiglia).

Poi, d’improvviso, la conversione, come  Saulo sulla via di Damasco, incomprensibile a tutti se non a lui. Dalle pagine del suo diario, Luisa apprende che d’improvviso, per le vie di Roma, dove si recava spesso per tentare di trovare improbabili fondi per il suo museo, si era sorpreso a  fissare la propria faccia, «livida, febbrile», riflessa in una vetrina:«Il mio sguardo mi guardava, il mondo intorno spariva, strofinato via da quello straccio giallognolo della luce. C’eravamo solo noi due, io e me. Lo straccio ci passava sul viso ma non ci cancellava, mentre invece faceva scomparire tutto il resto».    Da questo momento inizia, per questo Innominato laico e improbabile, un percorso che culminerà, al suo ritorno a Trieste, in un momento di illuminazione improvvisa sul senso e sul fine della propria ricerca.«De profundis clamavi ad te, Domine.»  E la strada dell’illuminazione conduce, o per meglio dire ri-conduce, eternamente e  inesorabilmente, verso San Sabba.

Per lungo tempo lo si può vedere continuamente alla Risiera e nei pressi della Risiera. Copia e raccoglie, soprattutto annota, come sempre. Ma copia e raccoglie altre cose![…]Lui cercava e annotava tracce di orrore e di infamia; addii, grida d’aiuto, disperati messaggi di morenti e peggio che morenti, testimonianze di delazioni, di torture e di torturatori, chiazze di sangue.

  Persino l’espressione del suo volto è diversa, come trasfigurata: «gli occhi non più esaltati o febbrili bensì malinconici e tuttavia fermi, gli occhi di un cane che non fiuta più lo sterco, ma cerca qualcuno, qualcosa, il padrone portato via dagli aggressori, l’amico scomparso».[…].  Lo si vede accarezzare e lisciare, con emozine e mani tremanti, i muri delle celle dei prigionieri:« Chissà dove è schizzato quello del De HEnriquez.jpgbambino bruno e ricciuto, un ebreo o un balcanico o tutti e due insieme, cui quella SS ha fatto scoppiare la testa con un calcio del suo stivale, perché era incespicato mentre lo stava portando in una delle celle; lo ha colpito di tacco e il sangue è schizzato sul pavimento e sul muro. Lui voleva sapere il punto esatto (…) bisogna essere esatti, precisi, quando si raccolgono prove d’accusa per la pena capitale eterna. «Voglio sapere dove poso il piede. Così come non calpesto una tomba al cimitero, non voglio calpestare il luogo sacro e maledetto dove è morto quel bambino

Il progetto di cura e realizzazione del Museo, è affidato a Luisa Brooks, che ha incontrato il professore soltanto poche volte prima della sua tragica fine. La madre di Luisa, Sara, ebrea di Trieste (suo padre era un  afroamericano tenente dell’aereonautica, morto in un banale incidente di volo ad Aviano ed anche lui portatore di una storia familiare in cui si condensano secoli di abomini e umiliazioni) odia il mare, non sorride e soffre di una terribile emicrania; ne soffre da quando ha scoperto che sua madre Deborah, la nonnna di Luisa, è  passata per il camino della Risiera; ma non completamente innocente, forse colpevole, per la disperazione, di aver denunciato chi la nascondeva temendo di essere stata denunciata, e condannando così a morte anche gli altri ebrei che il presunto protettore nascondeva in casa. A nulla valgono i tentativi pietosi di risparmiarle la verità; a Sara il dolore della vergogna si aggiunge  impietoso a quello della perdita. Per questo ora Luisa procede, nel suo tentativo di costruzione e ri-costruzione- della memoria e dell’identità dell’uomo,  attraverso la lettura e l’esame dei diari e delle testimonianze, nonché degli innumerevoli appunti  riguardanti le armi raccolte e destinate al museo. Da questo repertorio non henriq5.jpgsono esclusi  i soldi, « le armi più potenti del mondo», a cui sarebbe dovuta essere dedicata un’intera sala, la n.12, ed i libri:« I Protocolli dei Savi di Sion”, “Mein Kampf”, “Malleus maleficarum”, vecchie catapulte dell’odio tanto più distruttore quanto più stupido». Tuttavia, il nodo cruciale attorno al quale  costituire l’intero museo, è tuttavia, per Luisa, quello dell’assenza di quei suoi taccuini spariti: «quella contumacia dovrà essere in ogni caso il nucleo, il centro del Museo, pensava Luisa con rabbiosa determinatezza; è la loro sparizione la chiave, il pezzo forte di tutta quella storia – ce ne fossero anche alcuni sugli odori della Risiera, odori di prima e di dopo, di celle piene e vuote, degli abiti in lavanderia, delle immondizie bruciate».

L’mmaginario del fumo, della cenere, dell’odore dei corpi bruciati pervade come un miasma tutto il romanzo; un odore persistente e intollerabile, come il pensiero di quelle ceneri del crematorio che i tedeschi, nella furia di smantellare precipitosamente le prove di quei loro orrori, hanno riversato in mare:

Chi si accorge (…)del fumo sparso, invisibile, vagante chissà dove, del tanfo svanito della carne bruciata? Sì, lui aveva capito. Tardi, ma aveva capito. «I tedeschi», scrive, «quando è arrivato il patatrac, hanno fatto sparire tutto: il camino, il garage, il crematorio, documenti, libri mastri, quintali di carta; (…)In quella notte fra il 29 e il 30 aprile, alla Risiera altro fumo si è alzato scacciando quello di prima e poi è sparito anch’esso e con quel fumo, che un po’ di bora spazza via e fa dimenticare, è sparita la sparizione di tanti prigionieri torturati, massacrati, gassati, deportati, bruciati. «È di quel fumo che vado alla ricerca, di quei nomi fatti cenere. Non lotto contro l’oblio, ma contro l’oblio dell’oblio, contro la colpevole inconsapevolezza di aver dimenticato, di aver voluto dimenticare, di non voler e di non poter sapere che c’è un orrore che si è voluto – dovuto? – dimenticare. A Trieste vedo in ogni strada il fumo che non si è voluto vedere.»

Il tempo passa, il fumo si disperde e con esso la memoria dell’infamia. Per non rischiare che tristi brutture inuinino il giubilo della vita nuova  del dopoguerra, e dell’annessa ricostruzione, una mano accorta e prudente ritiene saggio imbiancare a calce i muri della vecchia fabbrica, rendendo dunque per sempre irrecuperabili le scritte faticosamente tracciate dai prigionieri sui muri delle loro celle , che oltre ai nomi delle vittime presentavano quelle dei “visitatori”, di quei zelanti e collusi collaborazionisti di città probabilmente colpevoli di quelle morti atroci:

Su quei muri e sugli ipotizzati nomi scritti su quei muri era stata poi data, in tranquilli tempi di pace, una mano di calce. Dopo la guerra, viene la pace, che ha pure il bianco colore del sepolcro e dei sepolcri imbiancati nel cuore.[…]Lui però, prima, pare le avesse viste e ricopiate, quelle scritte, almeno alcune; anche quei nomi, si mormorava, nomi abietti e altolocati di collaborazionisti o comunque buoni amici dei boia, incisi sui muri delle luride latrine dalle vittime sulla Risiera2soglia della morte e poi cancellati dalla calce calce viva, bianca, innocente e bruciante sulla carne viva – e poi cancellati forse un’altra volta ancora (….)da un fuoco distruttore che ripuliva ogni sozzura e restituiva una falsa innocenza alla più sordida e immonda infamia, a miserabili protetti per sempre dalla sparizione dei loro nomi dissolti nella calce e polverizzati nella cenere, illeggibili per i giudici umani, come quel magistrato che aveva dovuto concludere l’indagine sui crimini della Risiera quasi con un nulla di fatto; illeggibili forse pure per giudici più alti, anch’essi derubati di ogni materiale di prova e certo illeggibili per i figli di quegli assassini contumaci, ignari che quei loro nomi erano stati a suo tempo corrosi dalla calce o accartocciati dal fuoco; fieri anzi di portare quei nomi rispettabili e dei loro padri che li avevano portati anche quando le vittime – che essi avevano forse spinto o anche solo visto andare a una morte atroce e la cui sorte comunque non aveva turbato la loro indifferenza – li avevano scritti sui muri. Nomi cancellati e dunque onorati per sempre.

La distruzione – o sottrazione- di quei documenti in seguito all’incendio rende di fatto inefficace qualsiasi azione giudiziaria. Nel corso del processo, il pubblico ministero chiederà più volte che quei documenti vengano messi a disposizione, ma senza chiarire chi dovesse materialmente produrli . Proprio quella richiesta aveva, paradossalmente, reso evidente  quel danno incolmabile costituito dalla loro scomparsa: « era stato allora che era apparsa, per così dire, la loro scomparsa, prima celata, elusa, rimossa. Anche dello sparire bisogna accorgersi, di ciò che non c’è, e non è facile. Anzi, l’atto dello sparire e soprattutto del far scomparire è un oggetto privilegiato di occultamento e di oblio. (…) Cancellare l’assenza, annullare chi e cosa non c’è più; spegnere non solo il ricordo di chi se ne è andato, ma anche la consapevolezza che lui, lei, qualcuno se ne è andato. 

L’opera di  quella sorta di damnatio memoriae al rovescio, tuttavia, era cominciata ben prima del processo.  Il dottor Pezzl, presidente della Fondazione che si era fatta promotrice dell’allestimento del museo, affermava sul «Corriere Adriatico» che fosse inopportuno rendere pubblici quei diari, o quanto di loro fosse eventualmente sopravvissuto al rogo, prima che venissero« catalogati e classificati e prima di aver soppesato l’eventuale opportunità di desecretare alcuni brani di argomento delicato, che forse sarebbe stato ancora troppo presto…».Troppo presto per chi, si chiede il narratore. Troppo tardi, piuttosto; troppo tardi per le vittime, e troppo tardi per punire i colpevoli. Trent’anni sono stati più che sufficienti a molti dei colpevoli per passare a miglior vita, beffando dunque le loro vittime e la giustizia terrena, rivelatasi  troppo lenta ed inefficace;«troppo tardi in ogni caso per gli altri, che in tutti quegli anni avevano avuto il tempo di lavarsi le mani sporche di sangue o del sudiciume di quelle altre mani ancor più sporche di sangue, che durante l’occupazione nazista avevano stretto tante volte così cordialmente». Anche gli eredi, dalle colonne del  giornale locale, sono stati chiari: pur esprimendo la gratitudine nei confronti della Fondazione e del Comune per la meritoria opera di allestimento del Museo, ribadiscono il loro esclusivo diritto di disporre di quei diari nel modo secondo loro più opportuno, cioè «sempre beninteso nell’interesse non già nostro, bensì della cittadinanza, della collettività, dell’umanità».

In nome della tutela della rispettabilità, falsamente rubricata come interesse della comunità, la memoria cittadina subisce dunque« un raschiamento della coscienza »: i muri imbiancati a calce, i taccuini rubati, impediscono di inchiodare i colpevoli alle loro responsabilità; «il forno crematorio è un’ottima chirurgia dell’oblio». Resta il convenzionale compianto delle vittime, compianto che non costa nulla per i colpevoli, per un‘intera società civile che l’ha fatta franca, e che ha stretto volentieri le mani dei carnefici. Ed è questa società civile che il professore sa ormai di avere in pugno, inchiodata dalle testimonianze delle vittime

«Sono tranquillo, missione quasi compiuta. Sessantotto pagine, con nomi cognomi e date. Spie, delatori – non molti, anzi piuttosto pochi. Comunque… Ospiti di passaggio, visite di cortesia, quasi da amici di famiglia. Tutto scritto, copiato, registrato. Adesso non si vede più niente, su quei muri – mi correggo, si possono vedere e leggere molte cose, ma soloRisiera5 quelle che non fanno male a nessuno. Dolore per le vittime, sdegno per l’infamia dei boia. (…)Dei morti si può parlare. Ma non dei vivi, non di certi vivi. Là sì che è necessario coprire tutto con la calce, come è stato fatto. L’imbianchino ha fatto scuola. Ma io sono stato più veloce degli imbianchini.
Ecco qui i nomi di chi veniva in visita, forse di chi faceva la spia. Non molti, certo. Ma è già tanto che i prigionieri siano riusciti a lasciare quei graffiti, quei disegni, quei nomi. Il libro del Giudizio l’hanno scritto loro, con le unghie e con i denti. Io sono solo il copista, il cancelliere del Giorno del Giudizio. 

Al completamento  del «Liber scriptus» del «Dies Irae» manca ancora, però,  la pagina  più importante: l’individuazione della rete di affari ruotanti attorno alla gestione, allo smistamento e al riciclaggio dei beni razziati alle vittime, operazioni per le quali serviva la disponibilità di studi legali, società con ragioni sociali registrate e anche, probabilmente, il coinvolgimento del Governo militare alleato. La ricerca non si concluderà. L’epilogo,tragico vede la tremenda catarsi del fuoco purificatore- purificatore di tutte le memorie orribili, e tutto, i nomi e le identità, trasformati da furore a cenere,  può scivolare via, spegnersi nelle acque del mare. Gli ignobili hanno vinto; la Storia, «tumore inoperabile» «dall’alito cattivo», dalla carcassa piena di marciume, assolve sé stessa attraverso la riduzione all’impotenza dei giudici, umani troppo umani 

Mi avvio verso il mare, come gli altri. La notte è chiara. Nessuno parla. Pare che nessuno getti ombra, ma non può essere, sono io che sono così stanco… Forse siamo già in mare, dev’essere una notte di plenilunio, di festa, fuochi d’artificio s’incendiano nell’acqua non so se sia fredda o tiepida – prima era bollente, bruciava, adesso ha il colore del fuoco ma images (1)anche quello si spegne, non brucia, devo essere entrato in quel sottomarino che mi ero fatto dare dalla Marina. Sì, sprofondo; dall’oblò vedo i fogli bianchi, con quei numeri e quei nomi, affondare nell’acqua. Hanno scaricato le immondizie in mare, nel vallone, ci hanno scaricati qui, fra il patòc e il mare, l’acqua non dev’essere molto profonda ma andiamo giù, giù, gettare immondizie in mare è reato e anche gettare uomini, ma il giudice dichiara non farsi luogo a procedere.


Trieste è malata, malata come un essere umano, non vuole morire, lotta per la propria sopravvivenza come sa e può. Abbandonata dall’Italia nel 1943, si dimena lottando contro se stessa e alla fine alza le mani in segno di resa, sconvolta e distrutta.  […] 

Trieste 43

A partire dal 10 settembre del 1943, quando l’Italia, frastornata e confusa, si ritrova inprovvisamente dilaniata dalla guerra civile, Trieste, assieme a Gorizia,Udine, Fiume, Pola e Lubiana viene a costituire,  quarantott’ore dopo il proclama dell’armistizio di Cassibile, la  Zona d’operazione del Litorale adriatico (Adriatische Kunstenland) sotto la giurisdizione di Freiderich Reiner, a tutti gli effetti territorio tedesco. Naturalmente c’è bisogno di affermare anche in queste riluttanti contrade meridionali la perfetta efficienza della macchina di morte teutonica; per questo, ormai dal 2 agosto è giunto a Trieste Christian Wirth, Sturmbannführer delle SS, già fattosi conoscere come membro della Gestapo per la sua brutalità ed efferatezza, qualità che  già nel 1939 gli accordano di diritto la partecipazione al programma di eutanasia Aktion T4  nella sede di Grafeneck. Qui Wirth conosce Joseph Obenhauser, da quel momento suo sodale e compagno a Treblinka, Lublino, che lo accompagnerà sul Litorale adriatico. Con loro ci sono anche Kurt Franz , Willi Mentz e Frans Stangl, belve crudeli  già di stanza  a Sobibór e Treblinka:

Wirth, ossessionato dalla “questione ebraica”, fa installare a Trieste una struttura atta alla prosecuzione delle uccisioni di massa e costruire un piccolo ma efficiente forno crematorio. I metodi studiati in Polonia vengono applicati nel campo di concentramento di nuova costruzione all’interno del complesso abbandonato della ex Risiera di San Sabba, (…). Lo raggiunge a Trieste anche Erwin Lambert, esperto di costruzione di forni crematori, il quale mette a frutto con notevole successo l’esperienza maturata in Polonia. I forni vengono inaugurati solennemente il 4 aprile 1944, con la cremazione, a mo’ di prova, dei corpi di settanta prigionieri uccisi il giorno prima al poligono di tiro di Opicina. Anche il personale di Wirth ha maturato una discreta esperienza: oltre a cremare i detenuti, è attivo nelle torture e nei pestaggi mortali, mentre ai bambini, a seconda dell’età, è assegnata la raccolta della legna per i forni, nei quali, più tardi, finiranno anche loro.

A quest’orrore, alle urla selvagge come al fumo e alla cenere, la città volta ostinata le spalle, sperando  così – noli me tangere- di potersi salvare,di poter sopravivere. I «“ sichere Menschen”», le «persone per bene» , gli «adattati», stringono il patto col diavolo, in una dimensione schizofrenica in cui la rispettabilità normale della luce del giorno  paga il proprio tributo di sangue alle tenebre:

La stazione ferroviaria di giorno dorme, di notte muore nella luce spettrale e dondolante delle lampade (…), come se un selvaggio “Tanz” senza accompagnamento musicale, in cui le sagome si deformano e si frantumano, avvolgesse quello spazio Trieste stazionedelimitato e lo trasformasse in un gigantesco viso, privo di lacrime ma deformato dal dolore.[…]Dei 123 convogli che dall’Italia vengono spediti verso i lager nazisti, 69 partono da Trieste(…). […]I trasporti proseguono fino alla fine di febbraio 1945. L’esercito e la Polizia della Repubblica di Salò, lo Stato fantoccio del Terzo Reich, spediscono nei campi di concentramento 40.000 cittadini italiani, di cui 10.000 ebrei e 30.000 tra partigiani, antifascisti e operai arrestati dopo gli scioperi di massa del marzo 1944. Dei 40.000 deportati, 36.000 uomini, donne e bambini muoiono o vengono uccisi.

Ai cosidetti bystander, coloro che stanno a guardare (ma che non vedono), appartengono anche Haya Tedeschi la protagonista del romanzo,  e la sua famiglia:«Il padre di Haya, Florian Tedeschi, proviene da una ricca famiglia ebrea, completamente assimilata, a differenza della madre di lei [Ada Baar], appartenente invece a una famiglia ebrea povera e niente affatto assimilata». Già nel 1932, a Trieste, l’aria è pesante, gli ebrei, come gli slavi e gli stranieri, sono vittima di aggressioni da parte degli squadristi, con ben sei anni di anticipo sull’emanazione delle leggi razziali. Florian, grazie ad un amico, riesce ad ottenere un impiego al Banco di Napoli, e a Napoli si sposta con tutta la famiglia (qui Haya frequenterà il liceo ed avrà modo di incontrare, soltanto una volta, il matematico Renato Caccioppoli, intellettuale antifascista, prima che il suo stesso professore di liceo venga allontanato dal proprio posto. La maledizione fascista perseguita la famiglia Tedeschi anche nella città del sole, spingendoli a cercare rifugio a Valona, nell’Albania,  occupata militarmente dall’Italia nel ’39 ; ma ben presto, a seguito delle ripetute sconfitte subite dai fascisti, la resistenza albanese costringe gli italiani,tra cui moltissimi ebrei, a fare ritorno in patria. Nel frattempo, però in Albania giungono le truppe tedesche. E’ il 1943; oltre che dalla miseria più nera, le strade sono invase, monito per gli altri,dai cadaveri penzolanti dei dissidenti impiccati. Ada ha la cieca impudenza di presentarsi al comando delle SS ormai di stanza in città per chiedere che  venga scarcerato Sandro Koeffler, un collega del marito, una persona per bene, insiste lei :

«Mi ascolti», dice Ada, «Sandro è un uomo per bene, glielo dico io che di cognome faccio Tedeschi». L’ufficiale delle SS fissa l’immagine di Hitler appesa alla parete e rimane in attesa. «Tedesco in italiano significa “deutsch”», dice Ada. «Mi creda, è così».
«Ja, Tedeschi», dice l’ufficiale. «Ein jüdischer Name».

Il collega di Florian non sarà rilasciato.

Trieste

Costretti a ritornare domov, a casa,  a Gorizia, attraverso un percorso interminabile che tocca Montenegro, Ungheria e Austria, che passa anche per quella stazione di Budapest dalla quale pochi mesi dopo sarebbero partiti i vagoni piombati diretti ad Auschwitz, Haya, i suoi fratelli ed i suoi genitori giungono in Italia in una Venezia deserta e spettrale, occupata dai nazisti.«”Il mondo ci ha dimenticati”, dice Haya»;«Per i più, per gli ubbidienti e i taciturni, per coloro che se ne stanno in disparte, per i bystander, la vita comincia a diventare una piccola valigia che non viene mai aperta, un leggero bagaglio ficcato sotto il letto, una borsa destinata a nessun luogo, nella quale tutto è ordinatamente riposto – giorni, lacrime, morti e piccole gioie – e da cui si sprigiona un odore di muffa».

A Gorizia, la famiglia Tedeschi  si sforza di proseguire un’ esistenza normale, e di ignorare ostinatamente cosa stia avvenendo– sperando, come tutti, di costituire l’eccezione, di rimanere immuni ed intoccabili, in virtù della propria rispettabilità come della precedente, eventualmente attuale  adesione al partito fascista.Florian vende ombrelli, all’ngrosso e al dettaglio; Haya lavora in una tabaccheria, dove l’ufficiale tedesco Kurt Franz va a comprare i rollini per la sua macchina fotografica. Franz è giunto al Comando adriatico da Treblinka, dove si divertiva ad uccidere i prigionieri a pugni, a sparare ai bambini e ad aizzare il proprio adorato cane Barry ad azzannare le vittime ai genitali; ma Haya di tutto questo non sa nulla: sa solo che Kurt è il suo principe biondo dagli occhi azzurri, così bello da meritarsi il soprannome di Lalka Risiera 4(Bambola).  Assieme a Kurt, Haya frequenta la Casa germanica, assiste ad edificanti film di propaganda tedesca con bellissime attrici  e conosce anche il padrone di casa, il Gauleiter (Comandante regionale) delle SS Odilo Lotario Globočnik, costruttore del primo campo di sterminio Bełżec, (poi di quelli di  Sobibór e Treblinka) e  inviato dal Governatorato Centrale a Trieste da Himmler in persona con il compito di combattere i nemici politici del Reich e di assicurare l’efficiente prosecuzione delle operazioni di sterminio nell’area. E’ lui, il pifferaio magico che ha richiamato a Trieste i suoi vecchi commilitoni in Polonia.; alla sua bestiale crudeltà si devono, oltre alle vittime della Risiera, almeno un milione e mezzo di morti nei campi di sterminio polacchi.

La relazione tra Haya e Kurt non è certo infruttuosa: Haya rimane incinta e il 31 Ottobre 1944 dà alla luce un bel bimbo maschio, Antonio. Il piccolo prenderà il cognome della madre, perché nel dicembre dello stesso anno il bell’ufficiale comunica ad Haya la necessità di troncare la loro relazione a causa della sua evidente inopportunità («Tedeschi ist ein jüdischer Name»), aggravata dall’esistenza di una fidanzata tedesca che attende Kurt per le nozze. Haya fa battezzare il bambino, diffonde la voce che il padre sia caduto al fronte. Ma il 13 Aprile del 1945, mentre conduce il piccolo Antonio al nido, Haya viene fermata dal postino per una lettera (un invio di denaro dai suoi genitori, rifugiati da tempo a Milano); il tempo di voltarsi e la carrozzina è vuota. Ogni ricerca, telefonata, implorazione o denuncia sarà inutile. Da quel momento per Hanya il tempo e la vita si fermano. Del resto, già due anni prima Letizia, la zia di Haya, raccontava di aver visto i tedeschi sparare per gioco sulla stazione ferroviaria e colpire l’orologio della facciata. « Durante la guerra il primo a morire è il tempo(…) Il cuore del tempo batte di nascosto, (…), il tempo non va da nessuna parte». E’ il dolore a fermare il tempo per chi ne è colpito, per i morti come per i vivi, ammesso che fosse possibile stabilire una differenza. Nel mondo di fuori, tuttavia, il tempo continua a scorrere; la vita in tempo di pace riprende, malgrado tutto.

Orologio

Trascorrono trent’anni. Nel 1976 viene finalmente intentato il processo contro i  criminali di San Sabba: nessuno siede al banco degli imputati, essendo questi ultimi giustiziati dai partigiani o già morti per cause naturali. L’unico ancora vivo è Joseph Oberhauser, dopo la guerra gestore di un’allegra birreria a Monaco: gli accordi italo-tedeschi non prevedono l’estradizione, per cui la condanna all’ergastolo avviene in contumacia; Obernhauser  morirà tranquillamente tre anni dopo. In città come a scuola, dove Haya ormai lavora come insegnante di matematica, tutti ne parlano, sottovoce, di nascosto, animati da senso di vergogna, o di colpa, o di vendetta. I nomi degli imputati, tutti membri delle SS, sono circa una quindicina; ma Haya comprede d’improvviso che «l’elenco potrebbe essere infinito»e dovrebbe comprendere, oltre a circa un centinaio di nomi di ufficiali tedeschi, anche i mebri della Polizia, le mogli sorridenti, e gli italiani, quelli al servizio diretto del Reich, i collaborazionisti, e quelli rimasti semplicemente a guardare.«“E poi ci sono anch’io”, dice Haya». L’orribile abisso che trent’anni prima aveva voluto ignorare le si apre ora davanti. Deve sapere. L’esigenza di ricostruire gli eventi la porta a ricercare materiale, che lei colleziona freneticamente, ossessivamente, senza che da questo riesca a ricomporsi alcun senso. Quello stesso anno, in espiazione all’offesa della sua ottusa cecità dell’epoca alle vittime, va a visitare la Risiera ( «Haya dice, “è giunta l’ora” »). Da questo momento il passato non le farà più sconti.

Quindici anni dopo, nel 1991, un suo ex alunno, Roberto Piazza, che ha frequentato il liceo dal ’71 al ’76, dunque proprio nel momento in cui si istruiva e si svolgeva il processo, le spedisce una copia di Un altro mare di Claudio Magrisil dono è in realtà un potente j’accuse per il silenzio che Haya si è ostinata a mantenere su quegli eventi. Grazie a quel « sottile quanto potente libro», Roberto Piazza. ha capito che a Gorizia si intrecciano tuttora fili la cui origine è impossibile scoprire, fili inestricabili nella cui matassa giace il bozzolo di un’intera storia», e le rinfaccia di   non aver mai nominato «né la guerra né tutta la gente che durante quella guerra, la Seconda guerra mondiale, è scomparsa dalla loro città». Tra i prigionieri c’è anche suo nonno, Bruno Piazza, miracolosamente scampato alla morte, che ha raccontato a suo nipote – come farà poi nei suoi libri, tra i primi in assoluto a raccontare gli orrori della crudeltà dei nazisti e dell’inferno dei lager – come sia stato picchiato fino a perdere i sensi, come sentisse le grida disperate dei rinchiusi nelle celle confinanti, come abbia visto le SS sparare ogni notte ai prigionieri un colpo alla nuca e come, infine, i cadaveri venissero cremati. Per la Risiera sono   passati senza più tornare, eccettuato suo nonno, «trentatré membri della sua famiglia», che Roberto Piazza nomina distintamente, perché « dietro ogni nome si nasconde una storia»:

 Piazza Alceo, Piazza Angelo, Piazza Antelo, Piazza Anita, Piazza Bruno, Piazza Donato, Piazza Edvige, Piazza Elio, Piazza Elisa, Piazza Elvira, Piazza Emanuele, Piazza Fernanda, Piazza Giacomo, Piazza Gina, Piazza Gino, Piazza Giuseppe, Piazza Maria Luisa, Piazza Rachele, Piazza Regina, Piazza Sed Angelo, Piazza Sed Camilla, Piazza Sed Cesira, Piazza Sed Consola, Piazza Sed Costanza, Piazza Sed Emma, Piazza Sed Ester, Piazza Sed Eugenio, Piazza Sed Leda, Piazza Sed Marco, Piazza Sed Rosa, Piazza Sed Sara, Piazza Umberto, Piazza Virginia, tutti finiti a Auschwitz e a Dachau(…)

Per questo, alla lettera Roberto Piazza allega anche una busta contenente «  i nomi di circa novemila ebrei deportati, dal 1943 al 1945, nei lager nazisti oppure uccisi in Italia», i  cui nomi sono riportati- tutti- nel romanzo, per strapparli  all’anonimato, quasi in risposta all’imbiancamento a calce dei muri della Risiera, ultimo segno  certo di un’esistenza che è stata; ad Haya non resta altro che leggere quei nomi, e aggiungere quell’elenco interminabile alla tela strappata e macchiata di sangue della StoriaNel frattempo, Haya non smette neppure per un istante di cercare suo figlio. Scrive al Servizio di Ricerca della Croce Rossa (ITS), custodito nel palazzo  barocco di Bad Aroldsen,  un immenso «memoriale di carta» costituito da documenti, testimonianze, Bad Arolsenregistri e da tutti gli effetti personali e i documenti d’identità recuperati nei campi di concentramento e sterminio, inviando l’atto di nascita di Antonio Tedeschi, assieme ad una sua foto, supplicando di essere aiutata a ritrovarlo: perr cinquant’anni, la Croce Rossa le scrive  per ringraziarla della fiducia, ma senza alcuna notizia, se non, nel 1998, quella della morte di Kurt Franz. La ricerca consuma, Haya, letteralmente;ha sempre più la sensazione di scomparire, di diventare evanescente assieme a tutto il proprio passato. Per anni, « ciò che emerge mentre scrive le sue missive elettroniche a testimoni noti e ignoti sparsi per il mondo, a ricercatori simili a cani da tartufo, a coloro che fanno buche nel passato, diventando anche lei una di loro, un cane che cerca e scava buche nell’immondezzaio del tempo, non sono altro che riflessi di esistenze, tra cui la sua, riflessi ridotti a un pezzo di carbone incenerito, sotto il quale pulsano piccole verità, né utili né necessarie a chicchessia».

La ricerca di Haya Tedeschi si intreccia, nell’ultima parte del romanzo, con quella del sessantaduenne Hans Traube, a cui otto anni prima, sul letto di morte, la vecchia madre Martha  aveva rivelato di non essere stata lei a partorirlo, e  che Hans non era sempre stato Hans, ma era nato  come Antonio. Antonio Tedeschi. Antonio/Hans era stato uno dei   250000 bambini friulani, slavi e polacchi  coinvolti nel progetto Lebensborn,  il grande progetto segreto di Heinrich Himmler per la tutela della razza, complementare, se si vuole, all’eliminazione degli ebrei. Nato come rifugio per le madri tedesche che potevano partorire affidando i loro piccoli ariani nati illegittimi  allo stato (purché perfetti, naturalmente, altrimenti l’eliminazione fisica era immediata), il progetto si sviluppa fino a diventare un programma di eugenetica su vasta scala:  nelle case Lebensborn, diffuse su tutto il territorio tedesco, donne bionde dagli occhi azzurri  si uniscono ad uomini biondi con gli occhi azzurri, dando alla luce i futuri rappresentanti della super-razza germanica. Per incrementare il troppo esiguo numero di bambini nati da madri tedesche (o norvegesi; anche in Norvegia, dove erano di stanza molti militari tedeschi,  vennero aperte case simili, e le donne norvegesi davano con gioia il proprio contributo alla grandezza della patria tedesca), si aggiunsero a questi, oltre quelli presi dagli orfanotrofi, i bambini  rapiti nei territori conquistati dal  Reich: 250000 polacchi, 50000 bambini ucraini e altri 50000 provenienti dai paesi baltici, 600 bambini sloveni.Himmler riteneva assolutamente giusto e naturale sottrarre questi bambini alle loro madri; la sola alternativa sarebbe stata quella di ucciderli, assieme a tutto il resto della popolazione, dunque destinandoli alla sorgente di vita, Himmler consentie loro, effettivamente, di sopravvivere. I bambini, piccolissimi, vengono affidati alle educatrici di queste case; molti di loro, anche da adulti, non sospetteranno che la loro identità sia stata alterata, nè conosceranno mai l’identità delle loro madri, poiché i dati vengono rigorosamente tenuti segreti, e con l’arrivo degli alleati, ovviamente per non lasciare tracce, saranno dati alle fiamme:

Lebensbornin queste case i bambini subiscono il lavaggio del cervello, vengono addestrati, nutriti con le favole naziste sulla grandezza della nazione tedesca, sulla necessità di sottostare al dio Adolf e, una volta preparati, una volta forgiati, una volta trasformati in marionette, vengono trasferiti presso famiglie affidabili e sotto controllo dal punto di vista ideologico.

Purtroppo, per i « figli di Hitler» sacrificati sull’altare del Reich (letteralmente; i piccoli erano sottoposti ad una pantomima del battesimo su un altare posto sotto un’immensa svastica), l’inferno non si concluderà con la fine della guerra. Dileggiati, rifiutati, torturati, violentati, trattati come creature immonde, «sporchi figli del Reich» sicuramente ritardati (molti di loro sono stati chiusi in case di cura psichiatrica senza alcuna motvazione clinica), costretti a passare da un orfanotrofio ad un altro, per questi bambini, poi adulti, biondi e bellissimi la ricostruzione della loro identità, della loro persona, costituirà un percorso terribile, più terribile se, come Beate Niemann o Helga Schneider,  scoprono di essere figli di criminali nazisti:

SCHNEIDER02.jpgPer qualcuno di noi, per qualcuno che si carica sulle spalle come un bizzarro Babbo Natale un sacco pieno di peccati commessi dai nostri predecessori, la Storia non ha alcun bisogno di tornare: qualcuno di noi la Storia se la porta nelle ossa, e nelle nostre ossa la Storia trivella dolorosamente, e non c’è medicina che possa placare il dolore. Noi la Storia ce la portiamo nel sangue, e nel nostro sangue la Storia circola in modo silenzioso e distruttivo, e mentre all’esterno non trapela nulla, all’esterno tutto sembra tranquillo, dentro di noi, nel nostro sangue, nelle nostre ossa, la Storia, la nostra Storia ha preso dimora e ha cominciato a erodere le decrepite miserabili mura dell’immunità che da decenni cerchiamo di innalzare e fortificare.

Altri anni passano, il tempo- Haya lo sente- è ormai giunto alla fine. Ma ora che tutto è stato scritto e rivelato, è giunto il momento che anche lei, dopo sessantadue anni, trovi pace. E’ il 3 Luglio 2006. Haya attende da sola, in casa, dondolandosi accanto alla sua cesta piena di frammenti, stringendo la lettera che Helga Mathias le ha inviato da Bad Aroldsen, per dirle che è stata ritrovata la copia dell’atto di nascita di suo figlio, rapito per ordine di Himmler e poi adottato da Jürgen e Martha Traube.Haya ha riletto e ripercorso tutti quei frammenti, e le storie, dolorose, celate dietro ognuno di essi. «E così Haya dice, la cesta rossa è vuota, ho tolto il guscio dagli anni, uno per uno. Vedo il fondo.Lo  spazio si è riversato nel tempo – Zum Raum wird hier die Zeit».

Helga Mathias ha scritto anche ad Hans Traube, che infatti, in quella calda giornata di luglio, passeggia per le strade di Gorizia, immaginando con trepidazione ogni dettaglio di quel loro ormai imminente incontro. Può finalmente darsi pace: «tutti questi singoli dettagli che come un pazzo ho cercato di scoprire, scavando freneticamente negli archivi di varie città, di vari Paesi, un numero incalcolabile di dettagli che ora mi rendo conto essere completamente privi di senso», ora che il tempo perduto- rubato, sottratto a due persone per il folle capriccio di una mente criminale- è stato finalmente ritrovato. L’ostinazione nell’ indagare quel passato, pur  così atroce, per strapparlo all’oblio, per ricordare quanto era stato, come avrebbe detto Pimo Levi, ha legato madre e figlio con un filo invisibile che consentirà loro, alla fine di sessantadue anni di separazione, di riconoscersi e di appartenersi, quasi di fondersi, evitando così la terribile estraneità che nel delirio del Lebensborn ha separato per sempre genitori e figli:

dasa_drndicQuando scriverò del ruolo avuto da mia madre nella storia universale dell’infamia, non saprò chi ha passeggiato per la Risiera di San Sabba, chi ha fotografato la Risiera di San Sabba, se mia madre o io, chi ha fatto ricerche negli archivi dei gerarchi dell’Adriatisches Küstenland, se lei o io, chi ha studiato nei dettagli la vita dell’SS-Untersturmführer Kurt Franz, se Haya Tedeschi o io, Hans Traube-Antonio Tedeschi, chi è andato a visitare Treblinka. Insieme ci avvolgeremo intorno ai passati altrui, credendo che siano anche nostri, e ce ne staremo così, seduti, aspettando che questi passati ci cadano sulle ginocchia(…).


RISORSE E NOTE A MARGINE

-Corsivi e grassetti nei testi sono miei; le parole virgolettate (“”) sono invece già in corsivo nel testo;

-Le recensioni al romanzo di Magris su Il Corriere della Sera e  La Stampa (a firma, rispettivamente, di Corrado Stajano e Lorenzo Mondo); notevole anche, mi sembra, quella firmata da Mario Massimo sulla rivista  Patria Letteratura

-La recensione dell’Huffington Post sul romanzo della Drndic e l’intervista da lei concessa a Rai Letteratura;

http://www.letteratura.rai.it/articoli/da%C5%A1a-drndi%C4%87-le-storie-dietro-i-nomi/30568/default.aspx     

-Sul progetto Lebensborn (genesi, finalità, attuazione), il documentario de La7:

-Come ho già avuto modo di scrivere, non si troveranno in questo blog né le foto dei nazisti né tantomeno relativi link di approfondimento sulla loro biografia; non ci sembra decente concedere ulteriore  spazio e attenzione a criminali le cui vittime, a migliaia e a milioni, sono rimaste troppo spesso senza nome- reificate, le loro esistenze ed individualità annullate nella comune sorte dello sterminio. Le occorrenze dei nomi dei criminali di guerra sono qui citati, oltre che per le esigenze indispensabili di comprensione dei testi e delle vicende in essi narrate, solo a perenne marchio d’infamia;

-Il romanzo della Drndić è intessuto di richiami e rimandi ad altri autori; alcuni, come si è visto, esplicitamente dichiarati, come Magris e Thomas Bernhard (da quest’ultimo l’autrice riprende il modello della scrittura periscopica); per altri, il richiamo è implicito ma non meno evidente, come nel caso di W.G. Sebald, e del suo romanzo Austerlitz,    segnato dai temi del tempo, della ricerca, dell’espiazione della colpa e dall’immaginario delle stazioni e dei loro orologi- in questo blog  si è avuto modo di parlarne altrove , peraltro ancora una volta, e forse non è un caso, in relazione all’opera di Claudio Magris.

15 comments

  1. Cara dragoval, avevo messo in conto di leggere il tuo post con la ponderazione che imponeva, magari in due riprese. Invece, l’ ho divorato tutto, con il fiato ( e con il groppo) in gola. Bruciante e doloroso, da togliere il respiro, perché, scorrendo le tue parole, perfette come sempre, sembra di leggere direttamente quei due testi e sembra anche di essere là, in quelle situazioni. Non ho letto quei due romanzi, di cui ho solo sentito e raccolto commenti ( gabrilu aveva suggerito Trieste in risposta ad un tuo post) ma sono stata a San Sabba, l’ anno scorso.
    Taccio sui sentimenti provati, perché non saprei trovare le parole giuste ma voglio raccontare un episodio, forse utile e interessante. Gli opuscoli per i visitatori di questo luogo sono scritti in tre lingue : italiano, inglese e sloveno. Manca il tedesco. Interrogati su questa mancanza alquanto indebita, gli impiegati avevano fornito risposte burocratiche. Ma quel giorno era presente, nel cortile sinistro di quel luogo agghiacciante, Claudio Magris intervistato da una TV tedesca sul suo romanzo Non luogo a procedere. Abbiamo segnalato a lui questa strana omissione, suggerendo che sarebbe stato diverso per i visitatori tedeschi poter leggere nella propria lingua ( e non in inglese) la testimonianza di ciò che era stato. Magris ha convenuto, ed ha rafforzato riflettendo che durante l’ intervista, nel ricordare la sensazione provata la prima volta che era andato a San Sabba, aveva dovuto usare la parola Angst, ma si era reso conto che essa non rendeva, sul piano emotivo, la paura ancora viva nel suo animo.
    Infine, un dato da interpretare: ho cercato nelle biblioteche della mia provincia- tutta la provincia e non solo il comune- i due libri del tuo post. Sono presenti in molte parti, ma, alla vigilia del 27 gennaio, nessuno dei due è in prestito in alcuna biblioteca Ha a che fare tutto ciò con la domanda
    Perché è successo?. Temo di sì.
    Grazie sempre, cara dragoval, per questi stimoli che lasciano traccia e memoria. Un abbraccio.

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    1. @Renza
      Che altro dirti, mia carissima Renza, se non “grazie” per aver condiviso questa preziosa, importante testimonianza. E’ bello che tu abbia potuto incontrare l’autore nei luoghi del suo romanzo, e che egli abbia parlato, prima di ogni altra cosa, delle emozioni che quei luoghi gli evocano- nemmeno Angst , l’angoscia che strozza, è abbastanza per descrivere l’orrore.
      Quanto al resto di cui mi dici:la persistenza della memoria è un compito affidato a noi, che siamo ancora vivi, ma sottrarla alla vuota celebrazione del rituale collettivo mi pare diventi sempre più difficile davvero- per saturazione, indifferenza e abitudine alla violenza, incapacità di distinguere il reale dal virtuale, mancata formazione umana, emozionale ed affettiva delle nuove generazioni- e forse non solo di quelle.
      Ma il discorso sarebbe davvero troppo, troppo lungo e troppo vasto, e soprattutto ci porterebbe troppo lontano da dove siamo- da dove vogliamo restare per questo tempo dedicato alla memoria e alla preghiera -magari laica, o agnostica, ma pur sempre preghiera, se è vero che il sacro è una dimensione ineliminabile dell’ essere umano .
      Un saluto e un grazie -sentito come non mai

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  2. Non ti nascondo che adesso, dopo averti letta per la seconda volta, il mio interesse per Magris è aumentato ancora di più. Già da qualche mese ho un suo titolo in attesa (Microcosmi), e dagli estratti qui da te pubblicati mi sono resa conto che il suo stile mi piace, lo trovo incisivo e coinvolgente. Neppure sapevo, o forse non ricordavo, della Risiera di San Sabba utilizzata come lager dai nazisti, ma mi sembra che anche in giro, sui giornali o in altri blog, non se ne parli tanto… quando invece sarebbe giusto farlo. Però che tristezza la città di Trieste, con quelle scritte cancellate dai muri per far scomparire i nomi dei collaborazionisti, con quel dimenticare o far finta di dimenticare da parte della gente, anche a distanza di anni dalla fine della guerra… E che ulteriore orripilante parto della follia nazista è il progetto Lebensborn, così ben descritto nel libro della Drndic ́, che a questo punto sarei altresì curiosa di leggere, magari dopo quello di Magris… Intanto metto tutto in lista, poi si vedrà. E mi salvo nei preferiti anche questo tuo (splendido) accuratissimo articolo, pieno di notizie e riferimenti utili.

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    1. @Alessandra
      La scrittura di Magris ha davvero una sua scontrosa grazia , come della sua- della loro città diceva Saba; scrittura ruvida, che ama il contrasto tra le brutture e le bassezze dell’umana miseria e le vette sublimi dell’altezza d’ingegno . Non luogo a procedere e Trieste sono, come ho detto, due libri agglomeranti, densissimi e terribili, di cui qui non appare che un pallido riflesso; libri difficili, ma indimenticabili – e non certo nel senso più banale e abusato del termine. Quando sarà per te il momento di inontrarli, spero tu possa incontrarli insieme, perché molto di più avranno da dirti.
      Un abbraccio e grazie per esserti fermata

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  3. Non è possibile il silenzio; colpevole, sempre, il tacere. Anche solo non trovare le parole per una risposta, per dire ho ascoltato. Ma non possiedo parole. Peggio: non ho letto, consapevolmente, e non leggerò, temo, questi libri. Peggio: vorrei tanto che tutti, proprio tutti, li leggessero. Vorrei le prime pagine dei giornali – ma quante prime pagine, ogni giorno, martellanti, ci dovrebbero essere?
    Queste tuttavia sì – altrimenti nessun’altra verrà. Non davvero.
    Grata, e ammirata, della fatica che ti dev’essere costato scrivere tutto questo.

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  4. @Ivana Daccò
    Hai colto nel segno, e pienamente: leggere questi libri è doloroso, scriverne anche di più.
    E scrivere di questi due libri, infatti, era l’ultima delle mie intenzioni; mi trinceravo dietro mille alibi (“ troppo densi, troppo complessi……troppo”), sperando di poter(li) evitare, di poter(mi) risparmiare la re-immersione nell’orrore, infinitesimo, certo, rispetto a chi lo ha vissuto sulla propria pelle, a chi ne è divenuto e rimasto vittima, eppure, anche così, intollerabile.
    Ma questo è stato , ed il nostro compito è mantenere la memoria, questa memoria, in tutti i modi viva. Questo- poco- possiamo fare, questo- poco- dobbiamo fare.
    Un saluto, e grazie
    Ps In tanto orrore sono stata felice, però, che parlare del romanzo di Magris mi abbia dato occasione di rendere omaggio anch’io, nel mio minimo, ad una figura come Diego de Henriquez; sarebbe bello vedere annoverato anche lui tra i Giusti della Terra; sarebbe un riconoscimento doveroso. Non ha salvato vite, è vero, ma ha salvato la memoria, e avrebbe voluto denunciare i colpevoli gli altri ; la sparizione dei suoi diari credo renderà per sempre impossibili entrambe le cose.

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  5. Ansante e trafelata, e in ritardo come sempre, posso provare a dire anch’io la mia?

    ***La tua fatica (emotiva, psicologica), intanto: per leggere, ***sopportare*** (perché di questo si tratta, diciamocelo) il peso del contenuto di questi due splendidi e terribili libri. Che ho letto anche io, e non ci ho dormito la notte.

    *** La pervicacia con la quale, nonostante la fatica, hai lavorato ad un post che effettivamente enuclea i temi principali dei due libri (e immagino quante cose sei stata costretta a tener fuori, chè in un post non è che si possa dir tutto ma proprio tutto)

    Fai un lavoro importante, cara dragoval, questo almeno lo sai, neh? E noi siamo qui a leggerti, a seguirti, ad imparare.

    I due libri sono da leggere. Tutti e due, per intero ed anche se, leggendoli, si soffre.
    Boh. Io, almeno, ho sofferto molto. Altri magari chissà. Forse anche no.

    Libri che dovrebbero esser letti da tutti, si dovrebbero far leggere nelle scuole. Ma chi ha voglia di legger libri come questi, quando un Presidente degli Stati Uniti ritiene di poter risolvere i problemi del mondo con un semplice Tweet di 124 caratteri (ok, lo so, adesso il numero dei caratteri è aumentato, ma il senso del discorso Tweet non mi pare sia molto diverso)?

    P.S. Ma dove caspita le hai trovate, le immagini di Diego de Henriquez dentro la bara? 🙂

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    1. Dopo aver letto questi libri non si può essere più gli stessi; dall’ignoranza, piùo meno colpevole, alla consapevolezza, si compie lo stesso percorso dei protagonisti; e la memoria del Male , benché doverosa, raramente lascia indenni;

      Parlarne a scuola : lo si fa, naturalmente; e si viene a scopire anche che molti ragazzi hanno visitato la Risiera quando erano alle scuole medie. Tutt’altra cosa è il segno che lasciano queste esperienze, che calate così dall’alto, ad un’età inadeguata, non possono che lasciare tracce pallide ed evanescenti, rischiando forse di ottenere l’effetto contrario- assuefazione e sterilizzazione, rischio su cui tante volte hai insistito tu stessa. Il problema è che una coscienza civile non si costruisce in un giorno, quando in realtà tutto il complesso della pratica didattica favorisce competizione, individualismo e ottenimento del risultato, prestando attenzione nulla alla formazione della persona. Ma su questo tema annoso non voglio tediarti oltre;

      – – Sulle foto di de Henriquez: sono state prese dal blog quitrieste Arte e storia di Trieste e dintorni, il quale dedica a de Henriquez anche quest’altra notevole pagina da cui molto traspare della sua a dir poco originale, ma sempre umanissima, personalità;

      – E infine, su Trump: davvero, io lo trovo incommentabile, e quando penso alla carica che ricopre mi vengono i sudori freddi. Certo, se fosse stato ancora vivo il nostro Thomas Bernhard,avrebbe saputo trovare gli insulti più appropriati; io, non essendo tanta scrittrice, me ne astengo, lasciando che ogni lettore riempia la reticenza come meglio crede.

      Ciao, e mille grazie, anche per l’apprezzamento, del quale sono verosimilmente indegna ma sicuramente molto felice 🙂

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    1. @wwayne
      I meriti che mi attribuisci sono da ascrivere alla levatura degli autori e dei libri e alla sensibilità e cortesia dei miei interlocutori.
      Ma grazie infinite per il tuo apprezzamento e, soprattutto, per la tua attenzione 🙂

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  6. Cara dragoval, ho cominciato da Trieste, che ho finito di leggere. Capisco ciò che dice più sopra gabrilu sulla fatica emotiva e psicologica nel sopportare questi testi.
    Sono libri che ti obbligano ad affacciarti sull’ abisso di ciò che non vorremmo credere di essere. Ci piacerebbe pensare che il male è altrove ma dobbiamo imparare che tutti noi siamo by stander . Certo, in sedicesimo e per piccole cose o per cose meno orribili di quello che sappiamo ma, non abbiamo alcuna garanzia su di noi, che reagiremmo diversamente da chi non voleva sapere, o ha dimenticato subito o ha condiviso.
    Dal ripetersi della Storia dovremmo pur imparare qualcosa “repetitio est mater studiorum”, ma nonostante la Storia si ripeta caparbiamente, noi siamo dei pessimi studenti, e nonostante la Storia, spavalda e ostinata, non si arrenda, vada avanti a ripetersi senza sosta “mi ripeterò fino allo sfinimento, dice, per ripicca fino a quando non metterete la testa a posto,” dice – noi la testa a posto non la mettiamo. ( Daša Drndić, Trieste, pag 419).
    Adesso mi aspetta Magris, che leggerò con lo stesso dolore ma con lo stesso inevitabile dovere etico che ha accompagnato te, gabrilu e tutti quelli che non vogliono chiudere gli occhi. Grazie.

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  7. @Renza
    Grazie per queste tue parole, e per aver voluto condividere con noi proprio oggi che giunge la notizia che ad Udine, come avrai purtroppo letto, sono stati attacati adesivi dell’ex sindaco Furio Honsell in divisa da deportato e con una scritta ignobile,a bruciante chiosa della citazione della Drndić che ha fatto tua e che qui sopra riporti.
    Io stessa continuo a chiedermi ogni giorno che cosa possa praticamente una resistenza intellettuale che rischia di apparire troppo pateticamente inerme di fronte a tanta barbarie; e pure da qualche parte del mio essere emerge con forza la risposta, ovvero che proprio oggi appare urgente e necessaria più che mai, nella remota ipotesi che ancora qualcuno scelga di (r)accoglierne i valori, nonostante tutto.
    Un abbraccio e grazie ancora di cuore

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  8. Gentile dott.ssa Dragoval casualmente mi sono imbattuto nel Suo blog trovandolo colto, raffinato, decisamente importante e sarei lieto di inviarLe alcuni Ex Libris anche riferiti ai testi di cui al codesto post, testi suggestivi, importanti! Cordialmente
    R.M.
    ps: anche ai testi di W.G. Sebald di cui a post altri.

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    1. Buonasera, Roberto,
      per rispondere al Suo squisito messaggio non trovo altre parole se non per dirLe che La ringrazio infinitamente per l’attenzione, l’apprezzamento e la generosità, e che accetto la Sua offerta con tutta la mia gratitudine.
      Un caro saluto e ancora grazie

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