Letteratura ungherese

Gabbiani/2. …..Márai, Benjamin

 Il gabbiano come simbolo della sicurezza nel volare  incontro alla tempesta e gettarsi in picchiata  con istinto suicida ritorna nel  romanzo a cui Sándor Márai inizia a lavorare Maraidopo  Le braci, e che sarà pubblicato nel 1943, quando l’Ungheria è ormai pienamente travolta dalla furia della guerra. Il romanzo però è -con ogni evidenza- ambientato due anni prima, quando il Regno di Ungheria, alleato della Germania nazista, dopo aver invaso la Jugoslavia impadronendosi dei territori della  Bačka  e della Vojvodina (oggi  appartenenti alla Serbia) firma, il 27 giugno, la fatale dichiarazione di guerra contro l’Unione Sovietica, che avrà per il paese conseguenze incalcolabili: l’intera seconda armata dell’esercito ungherese, che si era peraltro astenuta dagli atroci crimini di guerra compiuti dalle truppe tedesche, sarà sterminata nel corso della battaglia di Stalingrado; il tentativo del governo ungherese di prendere contatti con le forze  alleate sarà intercettato dai tedeschi, che nel 1944 invaderanno il paese, deponendo  il reggente del Regno Miklós Horthy  e consegnando successivamente il potere nelle mani di Ferenc Szálasi, capo del partito filonazista delle Croci Frecciate, a cui seguiranno la persecuzione e la deportazione degli ebrei è poi, un anno dopo, la liberazione (i.e. l’occupazione) da parte delle truppe sovietiche. (altro…)

Memoria in-volontaria. Vassilij Grossman e Imre Kertész

 

PersonAuschwitzalmente io non ritengo l’istituzione del Giorno della memoria una grande idea;  e prima che mi si accusi di nefando negazionismo, vado brevemente ad illustrare le mie ragioni.

L’esperienza ci dimostra che l’istituzionalizzazione di una ricorrenza non rallenta lo scorrere del tempo e la distanza sempre maggiore che da quello ci separa; soprattutto, poi, per un popolo come il nostro, già di suo pigro e privo di qualsiasi senso di appartenenza collettiva, e che anzi verso ogni ricorrenza civile o  religiosa mostra un senso di finta compunzione da cui traspare una  malcelata insofferenza. Ne è un esempio il 25 Aprile, -di cui pure quest’anno, ricorre il settantesimo anniversario come per la liberazione di Auschwitz: credo sia innegabile che per la maggioranza degli italiani  questa data sia essenzialmente un giorno rosso sul calendario che consente ai più fortunati una gita di primavera fuori porta (o un ponte da trascorrere fuori, se capita di venerdì o lunedì). O, esempio forse più calzante, la giornata del 2 Novembre, commemorazione dei defunti, in cui mezza’Italia si riversa nei cimiteri per obbedienza alla convenzione sociale, ma senza neppure un pensiero a ciò che si sta facendo (fatte salve come sempre le debite eccezioni), per essere liberi di non pensarci praticamente più per i successivi 364 giorni.

La memoria storica  e la memoria collettiva, il senso di identità e di appartenenza, si costruiscono, o meglio si coltivano, non si impongono. E richiedono tempo e dedizione continua per metter radici salde nelle coscienze. La Shoah è ed è destinata a rimanere una ferita aperta nelle coscienze di tutti noi, candela1 incancellabile nell’inconscio collettivo della cultura occidentale, un terribile sottotesto permanente nella nostra musica, nell’arte, nella cultura, nelle tradizioni familiari dei testimoni e dei sopravvissuti, nei musei che raccolgono testimonianze, in tutte le forme in cui si esprime la nostra arte di sottrarre gli eventi al contingente e proiettarli fuori dal tempo.

Dal 27 Gennaio 1945, che è poi solo l’inizio della fine dell’inferno (almeno dell’inferno fisico), sono passati settant’anni, eppure l’Olocausto è per le coscienze assai più attuale di molte e altrettanto orribili tragedie contemporanee: perché le migliaia di testimonianze, saggi, scritti, documenti, muovono ogni corda della pietà e dello strazio ma non forniscono risposte. Comprendere è impossibile, conoscere è necessario, sostiene Primo Levi. E’ necessario ma non sufficiente; lo sforzo di comprensione del come sia potuto accadere non può mai essere eluso, anzi deve essere affrontato anche a fronte della nostra debolezza e incapacità, perché è la sola giusta causa che ci rende impotenti ma non conniventi con l’orrore.

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Un suono austero e perfetto come una fuga di Bach : Buon Natale

maraisorellacoverhz9La definizione nel titolo  è  di Z., il misterioso  protagonista  dello   splendido romanzo La sorella  di Sándor Márai. Un libro ambientato- almeno nella sua prima parte- in un albergo tra i boschi, durante il periodo e la notte di Natale, in cui la voce narrante, l’albergatore e i suoi rubizzi cacciatori ospiti hanno una sorpresa che proprio non si aspettano.

Un libro importante, sul Destino, la morte, la rinascita, il senso dell’Esistere. Un libro  profondamente spirituale, anche se tutt’altro che allegro: anch’esso austero e perfetto – e perfezione  è una parola che ricorre tante volte nel romanzo da farmi pensare a Márai come  ad uno degli Imperdonabili cari a Cristina Campo.

Cristina CampoGli imperdonabili

Tuttavia, su Márai e la Campo torneremo presto (anche perché, come spesso mi accade, sto scoprendo mille affinità in corso d’opera).

Per ora, questo asterismo è solo un pretesto per fare a voi che leggete i migliori auguri con il Bach di Maria Magdalena Kaczor: a proposito di musica, austerità e perfezione, ma anche di una straordinaria espressione di  altissima gioia, che è poi il vero significato del Natale

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RISORSE

* Su  La sorella  di  Márai lo splendido post di nonsoloproust   ;

** Il magnifico sito di Arturo Donati  dedicato a Cristina Campo;

*** Il sito di Maria Magdalena Kaczor

Vedi Napoli e poi muori. Sándor Márai e Raffaele La Capria

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Il noto adagio, che avrebbe semplicemente l’intento di indicare Napoli e la sua  corona di isole, insenature e promontori come il vertice massimo della Bellezza incarnata in questo mondo, letto alla luce delle opere dei due autori assume un significato ben altrimenti sinistro.

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Ne  Il sangue di San Gennaro , romanzo scritto da Sándor Márai durante la tappa napoletana  del suo esilio, l’autore narra di uno scrittore e di sua moglie, due stranieri senza nome, che prendono casa a via Nicola Ricciardi, la strada che da Posillipo sale verso via Manzoni e a cui corrisponde, dall’altra parte, la discesa a Marechiaro.  La bellezza del paesaggio e la dolcezza del clima,ad onta della miseria del dopoguerra e di quella sorta di kas’ba  orientale incastrato nel cuore del quartiere signorile, a memoria del fatto che Napoli  ha sempre coltivato una sostanziale prossimità tra le dimore dei ricchi e quelle dei poveri)  addolciscono appena l’amarezza e il rimpianto dell’esilio. Ma non a sufficienza. La terza parte si apre con il suicidio del protagonista,  che i due lunghi monologhi di un frate francescano e della donna senza nome tentano in parte di spiegare al vicequestore incaricato delle indagini. La risposta è complicata e semplice. L’uomo è morto suicida perché non aveva /più/Patria.

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L’uomo senza nome è un esule che sente di avere il potere di redimere il mondo attraverso il sacrificio di sé, come Gesù, come Chiara e Francesco, come pochi grandissimi mistici dell’Occidente.  Durante un viaggio in treno da Roma a Napoli, quando il golfo di Gaeta appare improvviso con il suo  blu e oro dietro le colline, come uno strale di felicità inaspettata, l’uomo è illuminato. Comprende forse di essere egli stesso il miracolo che tutti aspettano, a cui tutti  (e primi fra tutti gli umili, come nel Vangelo  e in Caravaggio) si rivolgono in silenzio nell’attesa che accada l’impossibile, che egli faccia finalmente accadere l’impossibile:

Gli uomini che vivono su queste rive, e che da migliaia di anni bighellonano tra i sentieri marini del golfo azzurro, se ne stanno nelle loro barchette con i calzoni tirati su fino alle ginocchia, le gambe divaricate, i piedi girati appena verso l’interno, per controbilanciare le oscillazioni del natante. Una postura, questa, che anche Ulisse assunse un tempo per navigare fino a qui, sbarcando nei pressi dello scoglio dove ogni mattina i cacciatori si preparano all’agguato. I cacciatori stringono virilmente, con entrambe le mani, le canne dei fucili. Sono tutti nati qui, su queste rive. Il loro sguardo è quello di chi conosce ogni possibilità data all’uomo, in acqua e sulla terraferma. Guardano lontano, verso le navi in arrivo, verso i barcaioli che gironzolano intorno al molo di Nisida, agli scogli di Capri e di Ischia, come chi conosce i segreti della terra e del mare. Ma guardano anche con attenzione, come chi si aspetta una sorpresa. E’ un modo di guardare antichissimo. Sulle coste occidentali del Mediterraneo tutti guardano così. Con lo sguardo di chi aspetta il miracolo. 

L’uomo e la donna si recano ad Assisi, in una sorta di viaggio di nozze spirituale. L’uomo ha bisogno di ripercorrere i passi, di toccare le pietre toccate da Francesco in attesa di un segno anche per lui.

La donna  azzarda un’ipotesi più semplice. Il miracolo è già avvenuto, è trovarsi dove sono , è rimanere dove sono:

[…]su di noi splenderà sempre lo stesso sole, con i suoi raggi fitti, ustionanti e implacabili, quel sole che ha effetti simili alla morfina, ti rende languido e felice… una morfina fredda e ardente, che rende l’uomo sobrio ed ebbro al tempo stesso, quando viene investito da quell’oppiaceo rifulgente.[…]Ad Amalfi ci avevano presentato un ungherese, o un austriaco, che si era praticamente dimenticato di andar via, perché non sapeva rinunciare all’ebbrezza oppiacea del sole meridionale… Forse è questo il miracolo, dissi. Restiamo in Italia, sì, forse è questo il miracolo».

L’uomo si suicida la notte seguente,una notte di vento e di tempesta che si abbatte furiosa sulla costa.

Sándor Márai, nonostante l’angoscia per la patria lontana, nonostante il senso di perdita, è felice in una Napoli che egli definisce ancora a misura d’uomo (contrapposta dunque alla spietata disumanizzazione dei regimi totalitari) e  si augura anch’egli ogni giorno che intervenga qualcosa che possa evitare la sua partenza per l’America. 

Ma il miracolo non si compie.  Márai partirà  realizzando  il sacrificio di sé  trent’anni  dopo, ma senza per questo redimere il mondo.


Del romanzo di Márai non poteva non occuparsi, per affinità elettiva, lo scrittore napoletano Raffaele La Capria, che dedica un suo articolo allo scrittore ungherese in occasione della pubblicazione de Il sangue di san Gennaro. Curiosamente, però, La Capria (certamente per modestia) non sembra approfondire qui le tematiche che maggiormente avvicinano il romanzo di Márai alla sua opera: l’attesa, la paralisi, l’incantesimo letale della  Bella Giornata che a Napoli dura invariabilmente da e per millenni:

Domani e poi un altr’anno quei giorni continueranno a splendere per conto loro, come se io fossi ancora qua e come quando morirò, ora e tra mille anni indifferenti e uguali.

Nel  romanzo di La Capria,  Ferito a morte,  il protagonista Massimo è costretto a lasciare Napoli per lavoro in favore di Roma. Ma la sua anima, il suo stesso modo di essere non se ne allontanano mai veramente. Quando ritorna, ripercorrere i luoghi della dolce vita tra Capri e Positano dove ritrova gli amici di un tempo, ormai invecchiati, sembra quasi  cogliere il pretesto per abbandonarsi al fascino maliante e paralizzante della città, al paradiso perduto di  luce e d’acqua vivo ormai solo nella memoria della giovinezza:

Perché sei rimasto, che cosa ancora ti trattiene? mi ha scritto Gaetano.

E come potevo dirgli la cosa assurda, come facevo a dirgli: ritrovare uno solo di quei giorni intatto com’era, ritrovarlo, per caso, una mattina uscendo con la barca a pesca col fucile? Fino all’estate scorsa, ultima estate, ogni giorno ostinato, rispondendo al messaggio, ai colpi del maglio dal mare, e sapendo che lei non mi vede, che insieme la luna e il sole vanno nel cielo di mezzogiorno, che il mare è senza avventura, che il tempo passa e sale con l’acqua sulle mura del palazzo, e un giorno, tra mille e mille anni uguale a questo, oggi è una bella giornata, dirà un raggio sul muro.

La bellezza è l’incanto della città ti ferisce a morte e ti addormenta, intorpidendo ogni volontà di reazione mentre inizia  a trascinarti sul fondo con lentezza impercettibile, come il Palazzo Donn’Anna a Posillipo:

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E’ il potere di Parthenope, il genius loci  della cittàsplendidamente descritto da Matilde Serao:

Parthenope non è morta, Parthenope non ha tomba. Ella vive, splendida giovane e bella, da cinquemila anni; corre sui poggi, sulla spiaggia. E’ lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori, è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene”

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Tenet nunc Parthenope:  la sua natura molle e nervosa, a frusta di cocchiere (G. Marotta) ti avvolge con le sue spire sinuose e non ti lascia andare mai più.

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Il link per richiedere l’accesso alla visione dell’ottimo documentario di Gilberto Martinelli Sándor Márai – Il sapore amaro della libertà