Memoria e nostalgia

La cognizione del dolore (nel segno di Wittgenstein).W.G. Sebald e Thomas Bernhard/1

 Nella sua bellissima raccolta di saggi  La malattia dell’infinito, dedicata ai grandi autori europei del Novecento Pietro Citati,  con la consueta felice intuizione che gli è propria, pone l’opera di Sebald in relazione a quella di Bernhard, senza limitare l’influenza dell’austriaco sul tedesco alla mera questione stilistica della scrittura periscopica, ma ne intuisce una radice più profonda«Come Thomas Bernhard, Sebald raccoglie il dolore del mondo ;ma se Bernhard si abbandona all’ansia e all’isteria, qui  [in Austerlitz, ndr] il dolore rimane sempre sul punto di esplodere. L’esplosione, che non avviene mai, lo moltiplica all’infinito.»:La cognizione del dolore, dunque – del mondo come del proprio;un processo che per entrambi gli autori si fa strada  e si concretizza attraverso i diversi aspetti della tormentata esperienza umana e intellettuale di Ludwig Wittgenstein.

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I treni del Tempo. W.G. Sebald e Claudio Magris

 

Reduce dalla rilettura di Austerlitz, l’ultimo romanzo (ma  il termine romanzo è riduttivo, specie per un autore che ha fatto del superamento del confine tra generi la propria cifra artistica) pubblicato da W.G.Sebald nel 2001, e a seguito di altre ricerche sulla sua opera anche tra critica e saggi non ancora pubblicati in italiano, mi ha felicemente sorpresa scoprire quale rilevanza abbia avuto per Sebald la lettura delle opere di Claudio Magris,  in particolare di Danubio , di cui Sebald  aveva recensito l’edizione tedesca a cura di Heinz Georg-Hend e a cui spesso allude anche nelle altre sue opere precedenti , come ad esempio Vertigini, ma del cui immaginario  proprio in Austerlitz si trovano molteplici e diffuse consonanze. (altro…)

Dal Baltico al Tevere. La grande bellezza della musica di Arvo Pärt

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download (1)Pärt, Pärt…..questo nome l’ho già sentito, sicuro!, penso, quando mi ritrovo tra le mani il volume di Jan Brokken, Anime baltiche; e continuo a pensarlo anche quando finalmente arrivo all’ultimo dei dodici capitoli, dedicato al musicista estone . Ma dove?….Poi, l’illuminazione  improvvisa: Arvo Pärt è tra gli autori della colonna sonora de La grande bellezza, visto e amato così tanto, or volge l’anno (e ben prima che si aggiudicasse la famosa statuetta).  Avevo fatto una ricerca, in merito, perché è uno degli aspetti del film che mi ha colpita di più; e locandinacosì ho scoperto l’esistenza di una produzione alta di musica sacra nel XX secolo, che per la verità, come tante altre cose, ignoravo totalmente.

In realtà il nome, di  Arvo Pärt era quasi scivolato in secondo piano, rispetto ad altri brani che mi avevano colpita maggiormente;ma che comunque, scopro oggi, sono a firma di compositori che si inseriscono nella stesso ambito di ricerca musicale,  come  John Tavener e Henri Górecki, noto come minimalismo sacro: una musica in grado di evocare la spritualità più alta con la maggiore economia di mezzi (quasi sempre, semplicemente, una linea melodica accompagnata da una sola nota di basso, o la riproposizione del canto gregoriano.)

 Naturalmente, la scelta di questi autori per la colonna sonora del film di Sorrentino non poteva essere casuale- e non lo è, infatti, come vedremo;né può essere spiegazione sufficiente   il fatto che Pärt sia un autore particolarmente amato dai registi, con oltre cinquanta film che ne includono brani nella colonna sonora (dal novero di questi film La grande bellezza è ovviamente esclusa, dato che il libro di Brokken è stato pubblicato nel 2010, dunque anteriormente alla produzione e all’uscita del film). La loro musica costituisce infatti non soltanto un elegante e alto sottofondo, ma implica la ricerca di una lettura del film che vada oltre  la mera celebrazione della dolce vita a cui tanto spesso è stato ridotto.

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Memoria in-volontaria. Vassilij Grossman e Imre Kertész

 

PersonAuschwitzalmente io non ritengo l’istituzione del Giorno della memoria una grande idea;  e prima che mi si accusi di nefando negazionismo, vado brevemente ad illustrare le mie ragioni.

L’esperienza ci dimostra che l’istituzionalizzazione di una ricorrenza non rallenta lo scorrere del tempo e la distanza sempre maggiore che da quello ci separa; soprattutto, poi, per un popolo come il nostro, già di suo pigro e privo di qualsiasi senso di appartenenza collettiva, e che anzi verso ogni ricorrenza civile o  religiosa mostra un senso di finta compunzione da cui traspare una  malcelata insofferenza. Ne è un esempio il 25 Aprile, -di cui pure quest’anno, ricorre il settantesimo anniversario come per la liberazione di Auschwitz: credo sia innegabile che per la maggioranza degli italiani  questa data sia essenzialmente un giorno rosso sul calendario che consente ai più fortunati una gita di primavera fuori porta (o un ponte da trascorrere fuori, se capita di venerdì o lunedì). O, esempio forse più calzante, la giornata del 2 Novembre, commemorazione dei defunti, in cui mezza’Italia si riversa nei cimiteri per obbedienza alla convenzione sociale, ma senza neppure un pensiero a ciò che si sta facendo (fatte salve come sempre le debite eccezioni), per essere liberi di non pensarci praticamente più per i successivi 364 giorni.

La memoria storica  e la memoria collettiva, il senso di identità e di appartenenza, si costruiscono, o meglio si coltivano, non si impongono. E richiedono tempo e dedizione continua per metter radici salde nelle coscienze. La Shoah è ed è destinata a rimanere una ferita aperta nelle coscienze di tutti noi, candela1 incancellabile nell’inconscio collettivo della cultura occidentale, un terribile sottotesto permanente nella nostra musica, nell’arte, nella cultura, nelle tradizioni familiari dei testimoni e dei sopravvissuti, nei musei che raccolgono testimonianze, in tutte le forme in cui si esprime la nostra arte di sottrarre gli eventi al contingente e proiettarli fuori dal tempo.

Dal 27 Gennaio 1945, che è poi solo l’inizio della fine dell’inferno (almeno dell’inferno fisico), sono passati settant’anni, eppure l’Olocausto è per le coscienze assai più attuale di molte e altrettanto orribili tragedie contemporanee: perché le migliaia di testimonianze, saggi, scritti, documenti, muovono ogni corda della pietà e dello strazio ma non forniscono risposte. Comprendere è impossibile, conoscere è necessario, sostiene Primo Levi. E’ necessario ma non sufficiente; lo sforzo di comprensione del come sia potuto accadere non può mai essere eluso, anzi deve essere affrontato anche a fronte della nostra debolezza e incapacità, perché è la sola giusta causa che ci rende impotenti ma non conniventi con l’orrore.

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Variazioni e Varianti. La Berceuse in Chopin e Van Gogh

 

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L’accostamento tra Chopin e Van Gogh, lo so, oltre a non avere nulla di letterario appare dei più improbabili; l’aspetto interessante, tuttavia, è che esso è autorizzato  non solo dall’aver composto opere con lo stesso titolo (come indicato nel titolo di questo post), ma anche dal fatto che queste opere nascono entrambe con il carattere  di variazioni sul tema.

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Le dune di Scheveningen : Vincent Van Gogh e Winfried Georg Sebald

Le coste olandesi sono nascoste da catene di dune che privano al viaggiatore la vista del mare.Dopo una lunga ed ardua arrampicata su queste colline di sabbia, alzi gli occhi ed ecco il mare, finalmente!

Il Mare del Nord non era conosciuto che in minima parte, dagli antichi[…]In effetti le sue coste sono tempestose, e il suo colore cangiante: vicino alla riva è di un giallo sporco come una torbida risciacquatura di piatti; più al largo, di un verdastro chiaro e, all’orizzonte, di un azzurro pallido che si confonde con la linea ondeggiante del cielo.Qui e là, grandi nuvole gettano la loro ombra oscura su questo specchio fluttuante. Né rocce né scogliere infrangono la forza delle onde: questo mare giunge rotolando  fino al  letto di sabbia che si è creato e che è in costante espansione. La fisionomia delle coste olandesi varia davvero poco: sabbia e ancora sabbia, mare e ancora mare, cielo e ancora cielo.

Su queste coste, che dànno l’impressione di essere senza limiti, sorgono, tra la foce della Mosa e Den Helder, diversi villaggi di pescatori. Il più interessante di questi è il villaggio di Scheveningen. La spiaggia di Scheveningen è frequentata in estate dai bagnanti. In quel periodo dell’anno,  un villaggi grazioso, collegato con l’Aia da una strada carrabile a tre corsie,  e da una “promenade” di legno che sparisce tra le dune, dà il benvenuto a visitatori di ogni paese.Qui, ogni cosa mostra gli effetti della vicinanza all’Oceano.

Dune di Scheveningen

Case a Scheveningen viste dalle dune , acquerello, L’Aia 1882

In una lettera al fratello Theo, probabilmente datata Maggio 1877, Vincent ricopia il testo qui sopra riportato dal  libro di viaggio La Néerlande et la vie hollandaise dello scrittore francese Alphonse Esquiros(Paris, Michel Lévy frères, 1859). (altro…)

Vedi Napoli e poi muori. Sándor Márai e Raffaele La Capria

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Il noto adagio, che avrebbe semplicemente l’intento di indicare Napoli e la sua  corona di isole, insenature e promontori come il vertice massimo della Bellezza incarnata in questo mondo, letto alla luce delle opere dei due autori assume un significato ben altrimenti sinistro.

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Ne  Il sangue di San Gennaro , romanzo scritto da Sándor Márai durante la tappa napoletana  del suo esilio, l’autore narra di uno scrittore e di sua moglie, due stranieri senza nome, che prendono casa a via Nicola Ricciardi, la strada che da Posillipo sale verso via Manzoni e a cui corrisponde, dall’altra parte, la discesa a Marechiaro.  La bellezza del paesaggio e la dolcezza del clima,ad onta della miseria del dopoguerra e di quella sorta di kas’ba  orientale incastrato nel cuore del quartiere signorile, a memoria del fatto che Napoli  ha sempre coltivato una sostanziale prossimità tra le dimore dei ricchi e quelle dei poveri)  addolciscono appena l’amarezza e il rimpianto dell’esilio. Ma non a sufficienza. La terza parte si apre con il suicidio del protagonista,  che i due lunghi monologhi di un frate francescano e della donna senza nome tentano in parte di spiegare al vicequestore incaricato delle indagini. La risposta è complicata e semplice. L’uomo è morto suicida perché non aveva /più/Patria.

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L’uomo senza nome è un esule che sente di avere il potere di redimere il mondo attraverso il sacrificio di sé, come Gesù, come Chiara e Francesco, come pochi grandissimi mistici dell’Occidente.  Durante un viaggio in treno da Roma a Napoli, quando il golfo di Gaeta appare improvviso con il suo  blu e oro dietro le colline, come uno strale di felicità inaspettata, l’uomo è illuminato. Comprende forse di essere egli stesso il miracolo che tutti aspettano, a cui tutti  (e primi fra tutti gli umili, come nel Vangelo  e in Caravaggio) si rivolgono in silenzio nell’attesa che accada l’impossibile, che egli faccia finalmente accadere l’impossibile:

Gli uomini che vivono su queste rive, e che da migliaia di anni bighellonano tra i sentieri marini del golfo azzurro, se ne stanno nelle loro barchette con i calzoni tirati su fino alle ginocchia, le gambe divaricate, i piedi girati appena verso l’interno, per controbilanciare le oscillazioni del natante. Una postura, questa, che anche Ulisse assunse un tempo per navigare fino a qui, sbarcando nei pressi dello scoglio dove ogni mattina i cacciatori si preparano all’agguato. I cacciatori stringono virilmente, con entrambe le mani, le canne dei fucili. Sono tutti nati qui, su queste rive. Il loro sguardo è quello di chi conosce ogni possibilità data all’uomo, in acqua e sulla terraferma. Guardano lontano, verso le navi in arrivo, verso i barcaioli che gironzolano intorno al molo di Nisida, agli scogli di Capri e di Ischia, come chi conosce i segreti della terra e del mare. Ma guardano anche con attenzione, come chi si aspetta una sorpresa. E’ un modo di guardare antichissimo. Sulle coste occidentali del Mediterraneo tutti guardano così. Con lo sguardo di chi aspetta il miracolo. 

L’uomo e la donna si recano ad Assisi, in una sorta di viaggio di nozze spirituale. L’uomo ha bisogno di ripercorrere i passi, di toccare le pietre toccate da Francesco in attesa di un segno anche per lui.

La donna  azzarda un’ipotesi più semplice. Il miracolo è già avvenuto, è trovarsi dove sono , è rimanere dove sono:

[…]su di noi splenderà sempre lo stesso sole, con i suoi raggi fitti, ustionanti e implacabili, quel sole che ha effetti simili alla morfina, ti rende languido e felice… una morfina fredda e ardente, che rende l’uomo sobrio ed ebbro al tempo stesso, quando viene investito da quell’oppiaceo rifulgente.[…]Ad Amalfi ci avevano presentato un ungherese, o un austriaco, che si era praticamente dimenticato di andar via, perché non sapeva rinunciare all’ebbrezza oppiacea del sole meridionale… Forse è questo il miracolo, dissi. Restiamo in Italia, sì, forse è questo il miracolo».

L’uomo si suicida la notte seguente,una notte di vento e di tempesta che si abbatte furiosa sulla costa.

Sándor Márai, nonostante l’angoscia per la patria lontana, nonostante il senso di perdita, è felice in una Napoli che egli definisce ancora a misura d’uomo (contrapposta dunque alla spietata disumanizzazione dei regimi totalitari) e  si augura anch’egli ogni giorno che intervenga qualcosa che possa evitare la sua partenza per l’America. 

Ma il miracolo non si compie.  Márai partirà  realizzando  il sacrificio di sé  trent’anni  dopo, ma senza per questo redimere il mondo.


Del romanzo di Márai non poteva non occuparsi, per affinità elettiva, lo scrittore napoletano Raffaele La Capria, che dedica un suo articolo allo scrittore ungherese in occasione della pubblicazione de Il sangue di san Gennaro. Curiosamente, però, La Capria (certamente per modestia) non sembra approfondire qui le tematiche che maggiormente avvicinano il romanzo di Márai alla sua opera: l’attesa, la paralisi, l’incantesimo letale della  Bella Giornata che a Napoli dura invariabilmente da e per millenni:

Domani e poi un altr’anno quei giorni continueranno a splendere per conto loro, come se io fossi ancora qua e come quando morirò, ora e tra mille anni indifferenti e uguali.

Nel  romanzo di La Capria,  Ferito a morte,  il protagonista Massimo è costretto a lasciare Napoli per lavoro in favore di Roma. Ma la sua anima, il suo stesso modo di essere non se ne allontanano mai veramente. Quando ritorna, ripercorrere i luoghi della dolce vita tra Capri e Positano dove ritrova gli amici di un tempo, ormai invecchiati, sembra quasi  cogliere il pretesto per abbandonarsi al fascino maliante e paralizzante della città, al paradiso perduto di  luce e d’acqua vivo ormai solo nella memoria della giovinezza:

Perché sei rimasto, che cosa ancora ti trattiene? mi ha scritto Gaetano.

E come potevo dirgli la cosa assurda, come facevo a dirgli: ritrovare uno solo di quei giorni intatto com’era, ritrovarlo, per caso, una mattina uscendo con la barca a pesca col fucile? Fino all’estate scorsa, ultima estate, ogni giorno ostinato, rispondendo al messaggio, ai colpi del maglio dal mare, e sapendo che lei non mi vede, che insieme la luna e il sole vanno nel cielo di mezzogiorno, che il mare è senza avventura, che il tempo passa e sale con l’acqua sulle mura del palazzo, e un giorno, tra mille e mille anni uguale a questo, oggi è una bella giornata, dirà un raggio sul muro.

La bellezza è l’incanto della città ti ferisce a morte e ti addormenta, intorpidendo ogni volontà di reazione mentre inizia  a trascinarti sul fondo con lentezza impercettibile, come il Palazzo Donn’Anna a Posillipo:

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E’ il potere di Parthenope, il genius loci  della cittàsplendidamente descritto da Matilde Serao:

Parthenope non è morta, Parthenope non ha tomba. Ella vive, splendida giovane e bella, da cinquemila anni; corre sui poggi, sulla spiaggia. E’ lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori, è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene”

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Tenet nunc Parthenope:  la sua natura molle e nervosa, a frusta di cocchiere (G. Marotta) ti avvolge con le sue spire sinuose e non ti lascia andare mai più.

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Il link per richiedere l’accesso alla visione dell’ottimo documentario di Gilberto Martinelli Sándor Márai – Il sapore amaro della libertà

Una piccola ala di muro giallo: Proust, Vermeer, De Waal (e altri…)

In La Prigioniera, quinto volume della Recherche proustianail narratore Marcel ci racconta come abbia appreso dalla amata Albertine della morte dello scrittore Bergotte (personaggio d’invenzione che sintetizza i caratteri degli autori contemporanei più amati da Proust, John Ruskin e Anatole France, e che nei volumi precedenti aveva rivelato  la sua importanza per la formazione letteraria del Narratore ), che pure in condizioni di salute ormai disperate si reca ad una mostra per contemplare un dettaglio della Veduta di Delft di Johannes Vermeer:

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Johannes Vermeer, Veduta di Delft , olio su tela 1660

[…] poiché un critico aveva scritto che nella Veduta di Delft di Vermeer (prestata dal museo dell’Aja per una mostra di pittura olandese), quadro che egli adorava e pensava di conoscere a fondo, una piccola ala di muro giallo (che non si ricordava) era dipinta così bene da sembrare, se la si guardava isolatamente, una preziosa opera d’arte cinese, di una bellezza che sarebbe bastata a se stessa, Bergotte mangiò un po’ di patate, uscì ed entrò alla mostra. Sin dai primi gradini che ebbe da salire, fu preso da mancamenti. Passò davanti a molti quadri ed ebbe l’impressione dell’aridità e dell’inutilità di un’arte così artificiosa, e che non valeva le correnti d’aria e di sole di un palazzo di Venezia, o di una semplice casa in riva al mare. Infine si trovò davanti al Vermeer che si ricordava più splendente, più diverso da tutto quel che conosceva, ma dove, grazie all’articolo del critico, notò per la prima volta dei piccoli personaggi in blu, che la sabbia era rosa, e infine la preziosa materia della piccolissima ala di muro giallo. I suoi mancamenti aumentavano; egli fissava lo sguardo, come un bambino su una farfalla gialla che vuole catturare, sulla preziosa piccola ala di muro. «È così che avrei dovuto scrivere, diceva. I miei ultimi libri sono troppo scarni, sarebbe stato necessario passare parecchi strati di colore, rendere la frase in se stessa preziosa, come questa piccola ala di muro giallo.» Tuttavia la gravità dei suoi capogiri non gli sfuggiva. In una bilancia celeste gli appariva, su uno dei piatti, la sua stessa vita, mentre l’altro conteneva la piccola ala di muro dipinta così bene di giallo. Sentiva di aver dato incautamente la prima per la seconda.

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Veduta di Delft , particolare

Isolata dal contesto, la morte di Bergotte sembra quasi un’esemplare storia Zen (l’illuminazione nel momento estremo, il colpo che abbatte, l’armonia  del tutto riflessa in ogni infinitesima parte).La perfezione e l’autosufficienza di ogni dettaglio, il suo valore intrinseco che resta intatto anche se isolato dal contesto, è certamente il principio primo dell’arte orientale, principio che Edmund De Waal, famoso ceramista britannico, ritrova nella collezione di famiglia dei suoi netsuke, le piccole statuine d’avorio e legno che riproducono straordinariamente animali, frutta e mestieri di uomini:

 

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La lepre dagli occhi d’ambra (The Hare with Amber Eyes, edizione italiana Un’eredità d’avorio e ambra, Bollati Boringhieri 2011) è appunto la storia ricostruita del lungo viaggio della collezione nel tempo e nello spazio (dal Giappone e ritorno) attraverso la storia dei suoi proprietari, gli esponenti della ricchissima famiglia  ebraica degli Ephrussi, trasferitisi da Odessa a Parigi e divenuti ben presto protagonisti della vita sociale e artistica della città (soprattutto nella figura di Charles Ephrussi, che come l’autore sostiene sembra prestare molto di sé al personaggio di Charles Swann):

 

Cerco di fare mente locale sulle più immediate analogie tra il mio Charles [Ephrussi]  il Charles della Recherche. Dico «immediate», ma quando le metto nero su bianco mi accorgo che compongono un elenco ben nutrito. Entrambi sono ebrei. Entrambi hommes du monde. Le loro frequentazioni vanno dai reali (Charles accompagnava per Parigi la regina Vittoria, Swann è amico del principe di Galles) ai salotti, fino agli atelier degli artisti. Sono cultori delle arti, appassionati di pittura italiana, in particolare di Giotto e Botticelli. Sono entrambiimages (7) esperti di un argomento misterioso come i medaglioni alchemici di San Marco. Sono collezionisti, mecenati degli impressionisti, fuori luogo al sole di una festicciola sulla Senna organizzata da un amico pittore [il quadro a cui allude de Waal è  Le déjeuner des canotiers  di Renoir,in cui appare un personaggio in frac e cilindro di spalle , ndr].Entrambi scrivono monografie d’arte: Swann su Vermeer, il mio Charles su Dürer. Entrambi mettono «la propria erudizione in materia d’arte a disposizione delle dame della società per consigliarle nell’acquisto di quadri e nell’arredamento dei loro palazzi». Sono dandy e insieme cavalieri della Legion d’Onore. Attraversano il giapponismo per approdare infine al nuovo gusto per lo stile Impero. Ed entrambi sono dreyfusisti che scoprono come la propria vita, messa in scena con tanta cura, possa all’improvviso andare in pezzi soltanto per il fatto di essere ebrei.

E’ proprio Swann a far conoscere le opere di Bergotte al Narratore.  Swann, che, progetta da tempo di scrivere uno studio su  Vermeer, a lui vorrebbe attribuire una Diana al bagno  erroneamente creduta a firma di Nicolas Maes (attribuzione che in seguito la critica riconoscerà come corretta). In realtà era Proust stesso ad avere una grande passione per Vermeer, di cui si era innamorato durante un viaggio in Olanda nel 1902; e lo stesso Proust ebbe un violento malore quando rivide, nel 1921, la Veduta di Delft esposto al Musée de l’Orangerie. Del resto, sull’inattendibilità del narrato nell’opera proustiana lo stesso De Waal ci avverte:

Proust gioca sul filo tra realtà e invenzione. . Elstir, [altro personaggio della Recherche, l’analogo di Bergotte per la pittura, che sintetizza la personalità e le opere di Pissarro, Renoir, Degas, e Manet, ] a cui De Waal  alluderà più volte   nella sua opera per illustrare il legame strettissimo tra Charles e i suoi pittori,ndr] per esempio, il grande pittore che abbandona l’infatuazione per il japonisme e abbraccia lo stile impressionista, contiene in sé elementi di Whistler e Renoir, pur possedendo tutt’ altra forza dinamica. Analogamente, i personaggi di Proust interagiscono con dipinti reali. La dimensione visiva dell’opera è non solo disseminata di riferimenti a Giotto e Botticelli, a Dürer e Vermeer, a Moreau, Monet e Renoir, ma è anche – attraverso l’atto stesso di osservare le immagini pittoriche e recuperare dalla memoria il senso di quello sguardo – intrisa del ricordo della percezione, del ricordo di quel momento fugace.

Che è come dire, appunto,  intrisa di impressionismo. Ed ecco dunque che ritroveremo ancora nei capolavori  degli impressionisti maestri della luce imbevuti di cultura giapponese,  ma quanto cresciuta e trasformata, la piccola ala di muro giallo:

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Claude Monet, Cattedrale di Rouen (In pieno sole), 1894

E con la Casa gialla  di Van Gogh, olandese anche lui e cultore di Vermeer, imbevuto di impressionismo e di cultura giapponese, possiamo forse davvero dire che, come i netsuke  di De Waal, la piccola ala di muro giallo sia  in un certo senso tornata a casa.

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Vincent Van Gogh, Casa gialla , Arles 1988