Oggi, 27 gennaio 2024, si ricorderà forse la celebrazione del Giorno della Memoria più difficile da quando la suddetta doverosa celebrazione è stata istituita
Quest’anno però qualsiasi discorso sull’Olocausto collide inevitabilmente contro quanto sta attualmente accadendo nella striscia di Gaza ad opera dell’esercito israeliano, ancora una volta con il sostanziale silenzio- assenso dell’Occidente, e con l’atroce paradosso dell’incriminazione di Israele per genocidio presso il Tribunale dell’Aia, con respinta della richiesta di archiviazione ed inizio dell’indagine giudiziaria
Resta la domanda se un orrore possa cancellare il senso – e appunto la memoria di un altro. La risposta è ovvia.
La Shoah resta l’abisso della storia del Novecento europeo, che letteralmente inghiotte ogni altro evento che sia preceduto e seguito – anche un altro orrore come l’utilizzo dell’arma atomica su Hiroshima e Nagasaki (non europeo, a rigore, certo; ma comunque determinato e maturato nel contesto del più grave conflitto mai esistito nel cuore dell’Europa) E’ un orrore senza fine che mai dovremo dimenticare che “è stato”, secondo il terribile monito di Primo Levi.
Proprio in considerazione della Memoria dell’Olocausto le nostre coscienze sono turbate perché il massacro e l’espulsione dei civili palestinesi dalla striscia di Gaza ad opera dell’esercito israeliano interroga profondamente il nostro senso etico. Abbiamo colpevolmente taciuto in passato; di più, siamo stati prima complici, poi carnefici.Le leggi per la difesa della razza, come abbiamo già avuto modo di scrivere su questo blog, costituiscono l’apice della nostra vergogna storica; la straordinaria disinvoltura italica e la contronarrazione post – bellica che ci vedono italiani brava gente coinvolti a malincuore nell’atroce equivoco dei rastrellamenti e delle deportazioni è stata tanto fortunata quanto, anzi proprio perché, ignobilmente autoassolutoria (come dimostra, il saggio di Robert S. Gordon, Scolpitelo nei cuori; nel capitolo intitolato Zone grigie e bravi italiani,
Come è già stato più volte affermato, nella seconda metà del Novecento si mantiene, costante e irregolare, un doppio passo fra, da una parte, questi imprescindibili problemi storici nazionali e, dall’altra, il composito insieme di memorie e raffigurazioni culturali della storia e dell’esperienza dell’Olocausto. In certi momenti, questi due ambiti si intersecano, plasmandosi a vicenda.[…]Questi cliché si sono conquistati una diffusione particolarmente ampia a partire dagli anni Ottanta, ma hanno origini che risalgono sino agli anni Quaranta. Entrambi contengono in sé potenti e distorti stereotipi, miti, tropi narrativi e strumenti esplicativi per fare i conti con il passato collettivo; ed entrambi pongono una serie di difficili questioni concernenti sia l’Olocausto sia il fascismo, questioni di complicità, colpa, responsabilità individuali e collettive, nonché la scabrosa distinzione morale, politica e giuridica fra commissione e omissione nell’agire storico. (…). Il primo è il problema della «zona grigia»; il secondo, il mito degli «italiani brava gente».
Abbiamo taciuto e siamo stati complici ieri; rischiamo di esserlo anche oggi, se a chiara voce non denunciamo l’insostenibilità dell’eccidio dei palestinesi a Gaza come pure l’ignobile pretesto ideologico della strumentalizzazione di quello stesso eccidio per la giustificazione dell’antisemitismo – peraltro mai del tutto sopito, al pari delle nostalgie del fascismo, in Italia come in tutta Europa. E dunque, certi dell’insufficienza delle parole di fronte agli orrori di ieri e di oggi taciamo, e come appendiamo le nostre cetre ai salici delle sponde, come recita il Salmo 137 – terribile leggerlo oggi- perché il loro oscillare al vento possa farci ritrovare nel silenzio la pietàsenza fine per le vittimedella Shoah come pure il coraggio di ri-conoscere dolorosamente l’orrore quando questo si ripete.
-Conforta ritrovare in queste voci (delle quali una è la più alta carica dello Stato) la capacità di prendere posizione sine ira et studio, preoccupati di un’indagine problematica degli eventi incentrata sulla dimensione dell’umanità, e della sua offesa, piuttosto che offuscata da pregiudiziali ideologiche; il punto di partenza da cui dovrebbe idealmente partire qualsiasi confronto, pur nella eventuale (e sempre auspicabile) divergenza delle posizioni
Questo post è stato pensato in dialogo con i due post recentemente pubblicati su NonSoloProuste dedicati alla Resistenza delle donnedi Benedetta Tobagi e alDiario partigiano di Ada Gobetti, da cui emergono gli ostacoli di ordine evidentemente culturale che hanno impedito fino ad oggi di riconoscere l’effettivo contributo e la peculiarità dell’impegno femminile nell’opposizione al nazifascismo. A sperimentare in prima persona la frustrazione di questo mancato riconoscimento è – anche – Alba de Céspedes,che nella Resistenza fu impegnata in prima persona e che retrospettivamente compie una disamina impietosa delle dinamiche maschiliste e patriarcali resistenti, quale ironia,anche nei gruppi partigiani. De Céspedes , che con un’espressione forse oramai desueta può certamente definirsi una donna di temperamento, è già compromessa con il regime fascista a causa della pubblicazione diNessuno torna indietro, romanzo che sovverte dal profondo i canoni della femminilità disegnati dal regime fascista, ma che riesce ad eludere la censura grazie al notevole successo di critica e pubblico, nonché dell’ autorevolezza dei recensori Sem Benellie Francesco Flora, (entrambi, per inciso, firmatari delManifesto degli intellettuali antifascistiNella prefazione al romanzoDalla parte di lei – sorprendente opera di indagine sulla condizione femminile, nei suoi aspetti anche più oscuri e reconditi, che si intreccia con le vicende storiche legate all’occupazione tedesca di Roma, all’armistizio, alla formazione e all’azione delle diverse anime della Resistenza romana -, l’autrice dichiara espressamente come i suoi ideali romantici legati ad una concezione eroica e pura della Resistenza fossero stati ben presto disattesi, e manifesta la propria insofferenza per lo stato di minorità in cui si pretendeva che le donne rimanessero avvilite nonostante il «supremo sacrificio compiuto da donne combattenti sia antifasciste che fasciste»:
Questo libro fu anche una mia presa di coscienza circa l’entusiasmo che mi aveva ingenuamente guidata nel combattimento per la libertà e nel convincimento che fosse possibile vivere l’amore come un’avventura senza limiti e senza ambiguità. Già in quegli anni, tra il 1946 ed il 1949, queste mie convinzioni cominciavano a vacillare. […]. L’esperienza della guerra e dell’impegno politico avevano resi ancor più intollerabili tali vincoli. L’eguaglianza della donna e dell’uomo di fronte al pericolo e alla morte era ormai divenuta palese per me. Il passaggio delle linee del fronte sul fiume Sangroaveva rafforzato irrevocabilmente tale convinzione. Sapevo ormai che un uomo può tremare e una donna restare impavida durante un bombardamento di artiglieria.
L’Italia dell’immediato dopoguerra è ovviamente un immenso cumulo di macerie anche morali,su cui bisogna ricostruire una nazione attraverso il senso di aggregazione ed appartenenza.; la fretta, la necessità di accantonare gli odi e il desiderio di vendetta, ancora fumanti come le rovine dei bombardamenti, devono necessariamente condurre ad un compromesso, ad un superamento delle rivalità e delle differenze di parte. Ma questa operazione non è indolore, e soprattutto, non consente l’elaborazione del trauma indicibile della guerra civile, ma solo la sua provvisoria rimozione attraverso il ritorno ad una normalità che tale oramai non poteva più essere , rivelandosi al contrario nel proprio desolante squallore:
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D’altronde l’insofferenza dei vincoli che rattenevano le donne dall’esprimere la loro volontà di azione, pesava vieppiù su di me. Tale insofferenza si era già espressa nel mio primo romanzo Nessuno torna indietro, ma non avevo più ventisette anni come all’epoca della pubblicazione di esso. L’esperienza della guerra e dell’impegno politico avevano resi ancor più intollerabili tali vincoli. L’eguaglianza della donna e dell’uomo di fronte al pericolo e alla morte era ormai divenuta palese per me. Il passaggio delle linee del fronte sul fiume Sangro aveva rafforzato irrevocabilmente tale convinzione. Sapevo ormai che un uomo può tremare e una donna restare impavida durante un bombardamento di artiglieria. In seguito la documentazione storica mi avrebbe reso edotta del supremo sacrificio compiuto da donne combattenti sia antifasciste che fasciste. Mi esasperava dunque con il ritorno alla normalità ritrovarmi nella condizione di subalterna che la società mi attribuiva in quanto donna. Soltanto una donna poteva capire in quel tempo quanto fosse irritante sentirsi sotto tutela.
Roma, 16 luglio 1943. I bombardieri delle forze alleate colpiscono il quartiere San Lorenzo. E’ il primo bombardamento sulla capitale (e purtroppo non sarà l’unico): l’attacco avviene in pieno giorno, la città è totalmente colta di sorpresa, le abitazioni crollano, le perdite umane sono numerose, La descrizione degli eventi ci viene così restituita dalla voce della protagonista del romanzo, che si sofferma in particolare, oltre che sull’ evidente stato di choc dei sopravvissuti, sulle vittime animali, in particolare i cavalli di una scuderia, vera strage degli innocenti della follia incomprensibile piovuta dal cielo :
Durante il bombardamento io ero in una vecchia cantina di via Venti Settembre. Le altre donne avevano molta paura e gridavano, chiamavano la Madonna. Io avevo molta paura. Due giorni dopo andai (…) a vedere il quartiere bombardato. Eravamo sul piazzale del Verano quando ci raggiunse l’odore dei cavalli morti: era un odore così acuto che dovemmo portare il fazzoletto al viso, e Tomaso mi prese sottobraccio. Una scuderia era stata colpita in pieno, ci dissero, quella dove stallavano i cavalli neri dei trasporti funebri. Chi era giunto per i soccorsi aveva udito i nitriti alti, disperati. Le voci degli uomini sepolti vivi nelle cantine non si udivano, invece. Durante l’opera di salvataggio sempre i cavalli avevano nitrito e quando, infine, tacquero, certo anche l’ultimo grido umano si era spento sotto le macerie. Il quartiere di San Lorenzo era deserto. Sui fianchi delle case, negli squarci, pendevano materassi, indumenti, ritratti, e il silenzio pesava nei cortili soffocati di calcinacci e polvere. Dappertutto si sentiva quell’odore dolciastro e nauseabondo(…). Incontrammo un vecchio che portava in mano un secchio da riempire alla fontana. «Ero appena uscito in istrada» diceva «e la casa mi è crollata dietro.»
Per quanto sconvolta, la città prova a reagire. Si attendono le notizie dalla radio, appare evidente che l’evento non può lasciare le cose immutate, che qualche radicale cambiamento si stia ormai preparando. Tutta la città, in ansia, è in attesa di notizie. Il fascismo, la “voce arrogante” del Duce, tuona e minaccia rappresaglia e vendetta contro i traditori; ma è un regime al suo epilogo. Pochissimi giorni dopo, la notte del 25 luglio, avverrà la caduta delGran Consiglio del Fascismoe Mussolini sarà deposto dal proprio ruolo di capo del Governo. Gli antifascisti romani, molti dei quali ovviamente fino a quel momento non dichiarati come tali ma tra di loro in collegamento, considerano oramai imminente la liberazione della città. Dalle linee impazzite dei telefoni, o tramite il semplice passaparola, si insiste con il monito: “ Ascoltate la musica”,questa volta non soltanto riferito alle trasmissioni clandestine di Radio Londra,ma anche all’EIAR, l’emittente radiofonica ufficiale, da cui si attende con il fiato sospeso la notizia insperabile:
A quell’ora ogni sera, mentre chiudevo la finestra, vedevo le donne del casamento dirimpetto chiudere la finestra benché il caldo fosse soffocante; per un attimo ci guardavamo. Ci guardammo con maggiore intensità, quella sera. (…) accostando l’orecchio alla tela che nascondeva l’altoparlante, udimmo bussare cupamente come per dirci di avere fiducia, attendere. Ma noi sapevamo che quella sera il conforto della stazione proibita non ci sarebbe bastato più. (…) volontariamente tornammo a consegnarci alla voce arrogante che per anni avevamo ascoltata, zitti, aspettando[…] La nostra rivolta si esprimeva proprio in quel silenzio, in quel modo paziente di aspettare(…)Fu in quel momento che la voce nuova parlò: senza arroganza, dolorosa, grave. (…) io ero sola di fronte a questa voce saggia e modesta: e, sebbene contenta di non aver più paura, scoppiai a piangere, umiliata che la voce arrogante fosse stata proprio la voce del mio tempo e della miaetà.
Le voci, nella realtà storica, sono due, quelle del re Vittorio Emanuele III e di Pietro Badoglio, , il maresciallo d’Italia succeduto a Mussolini alla guida del governo, che nella notte del 25 luglio ai microfoni dell’EIAR informa i cittadini che «la guerra continua», e che l’italia avrebbe «tenuto fede alla parola data» agli alleati (erano in corso le trattative per il futuro armistizio), proclamando «lo stato d’assedio e l’ordine di «sparare a vista contro i dimostranti»per limitare i disordini , non esplicitando la brutale verità del fatto che da quel momento la lotta contro il nemico si sarebbe trasformata in conflitto civile. La popolazione romana, tuttavia, esulta per la caduta del fascismo ed anche anche se il peggio, per la capitale, come è noto, era di là da venire (dal rastrellamento tedesco al Portico d’Ottavia, all’attentato di via Rasella e al conseguente massacro delle Fosse Ardeatine), i cittadini tornano per breve tempo a respirare- e di nuovo, a parlare e ad incontrarsi come da tempo non era possibile:
E attorno a noi la gente passava lesta. Alcune persone si fermarono in crocchio a parlare, poi tutti si aggrupparono presso una bottega dalla quale veniva il segnale della radio. Io avevo paura quando la gente si affollava per ascoltare la radio; era sempre un segno funesto. In Abruzzo erano tutti dispersi nelle campagne, qui indugiavano nelle strade ancora chiare d’estate; erano nelle case, a tavola, alcuni lavoravano, o erano innamorati, sembravano indifferenti, difesi, eppure dovevano subito interrompere ogni altra cura e accorrere docili ad ascoltare ciò che diceva la radio. Non era più una miracolosa invenzione che trasmetteva la musica o i richiami per salvare le navi. Era una inesorabile potenza: il corso della nostra vita dipendeva in gran parte da ciò che diceva la radio. «Giungemmo appena in tempo per udire le ultime parole e poi restammo zitti, pallidi, mentre qualche soldato lanciava in aria il berretto rallegrandosi che fosse stato firmato l’armistizio.
Da quel momento inizia per la protagonista il coinvolgimento attivo nella Resitenza., «il lungo giorno nel quale io non ho mai potuto riposare».[…] .Il romanzo di De Céspedes descrive la partecipazione della protagonista di un’azione partigiana realizzata dalle delle “staffette” femminili, paradossalmente insospettabili a causa degli stereotipi del patriarcato, che trasportano sulle loro biciclette manifesti, giornali, armi nelle borse della verdura che andavano a procurarsi non senza fatica fuori dalle mura cittadine – e che subivano immancabilmente le perquisizioni dei soldati tedeschi.Dal racconto emerge con fin troppa chiarezza la disparità di trattamento riservata alle donne, il cui contributo, prezioso ed indispensabile, viene spesso concepito dacomandanti partigiani come deprivato di qualsiasi connotazione di eroismo, e nelle intenzioni confinato il più possibile nell’ambito delle attività domestiche:
All’andata io avevo l’impressione di fare un gita in campagna; Affidate a quel sibilo, simile a un ronzìo lieve di officina, tutte pedalavamo insieme, senza guardarci. […]. Guardavo le nuche delle donne come quelle delle compagne di scuola, e avrei voluto accarezzarle con tenerezza: alcune di queste donne si logoravano nella paziente ricerca del cibo per i figli, nella ricerca del danaro necessario a mantenerli; lavoravano tutte, dacché gli uomini erano lontani, e alcune di esse erano andate a rubare nei vagoni merci colpiti dai bombardamenti, altre andavano a letto coi soldati. Poiché tutto si poteva chiedere alle donne, non c’era limite: Tullio [il comandante del gruppo a cui appartengono la protagonista e suo marito,ndr] chiedeva di preparare un letto, lavare la biancheria di una compagna che aveva bisogno di rifugiarsi, chiedeva di far cucina a tutte le ore, per tutte le persone che passavano, bisognava servirle tutte, per tutte trovare cibo e talvolta danaro(…)e poi domandava se sapessimo andare in bicicletta. Agli uomini chiedeva solamente di andare in bicicletta.
Nel romanzo viene dato ampio spazio proprio alla coraggiosa resistenza della cittadinanza in undici mesi di occupazione che non risparmiano nulla alla popolazione civile in termini di arresti, torture, rappresaglie e deportazioni, ma che pure per contro determinano, da parte dei civili, quegli atti di coraggio ed abnegazione che James Hillman definisce il «sublime della guerra»:
In quel tempo la città era piena di persone che non avrebbero mai avuto la possibilità di divenire eroi: eppure, tra noi tutti, circolava una solidarietà così profonda che spesso raggiungeva l’eroismo, benché attraverso la paura. Perciò, forse, c’intendevamo facilmente: bastava un cenno, un’occhiata. Le case si aprivano ai tribolati, accogliendoli nella miseria che era in esse, come se finalmente ci fossimo tutti risolti a rivelarci. Sì, veramente fu un’epoca cherese migliori anche coloro che non avevano l’ambizione di divenire eroi e che pure sentivano l’obbligo di tener fede a se stessi.
A questo elogio della resistenza civile fa poi da contrappunto l’indimenticabile descrizione dellaliberazione di Roma, il 5 giugno 1944 l’incredulità della popolazione nel realizzare che i tedeschi avevano abbandonato la città ,seguita dall’esplosione di gioia all’ingresso in città delle truppe alleate al comando del generale Clark:
Al mattino tutti uscirono guardinghi; ispezionarono cautelosi le strade e le piazze dove non si vedevano più autocarri né soldati coi fucili spianati. Lo squallore li sgomentò, dapprima: temevano che celasse un tranello, un estremo stratagemma: ma fu proprio la deserta malinconia delle strade umiliate e malconce a dar loro la certezza che la città era stata abbandonata. Allora le case si svuotarono in un baleno, la gente correva via come acqua, dilagava nelle strade. Le vie tornarono a echeggiare passi, richiami. Tutti parlavano a voce alta, si chiamavano di sotto le finestre, le ragazze correvano in bicicletta e i loro capelli ariosi si sollevavano nel vento.[…] Affacciata alla terrazza mi stordivo nell’aria libera della bella estate e nelle grida festose che scoppiavano qua e là, come fuochi d’artificio. Dalla finestra sottostante udivo salire voci che disapprovavano un così clamoroso entusiasmo: invece a me pareva facile comprendere che quello era un modo di applaudire noi stessi, il nostro coraggio, la nostra pazienza, ecosì cancellare i duri giorni trascorsi, applaudire, gridare, urlare, provare che il lungo e tetro giorno era veramente finito. Bisognava essere privi di pietà per non comprendere che tanta vita repressa, costretta, imbavagliata, doveva pur esplodere in qualche modo.
Tuttavia la liberazione della città coincide, per amaro paradosso, anche con la progressiva restaurazione del maschilismo patriarcale. Per la protagonista sarà un dolore notare la freddezza e l’indifferenza di coloro che fino a pochi giorni prima avevano messo la propria vita nelle mani di lei. Con il ritorno dell’eroe (il marito della protagonista, anche lui partigiano), la sua figura, la sua partecipazione alla resistenza vengono eclissate, al punto da spingerla quasi a dubitare di sé stessa e della realtà di quanto era avvenuto, vittima di una forma antesignana di gaslightingautoindotto che lascia nel suo animo un disperato senso di frustrazione ed amarezza:
Anche con i compagni, ormai, non trovavamo più nulla da dirci: l’amicizia che fingevamo era fittizia: in realtà essi erano tornati ad essere gli amici di Francesco. Infatti, quando conducevano con loro un nuovo amico o compagno me lo presentavano dicendo brevemente «la signora Minelli» e già, trascinandolo pel braccio mentre costui avrebbe voluto indugiarsi in qualche frase di convenienza, lo presentavano a Francesco con una voce del tutto diversa. Poi illustravano le ormai famose avventure di mio marito. Io ero contenta che non accennassero alle modeste missioni che io avevo compiuto: poiché, per me, esse possedevano un valore assolutamente personale e mi infastidiva che altri ne disponesse liberamente. Tuttavia mi veniva fatto di sospettare che le bombe che avevo portato io fossero false: se solamente quelle che gli uomini avevano portato rappresentavano un pericolo; dubitavo del contenuto dei manifesti; ricordavo che i messaggi erano per lo più frasi insulse, simili a quelle che si trovano nelle grammatiche di una lingua straniera. Non significavano nulla, forse; incominciavo a credere che fossero stati preparati al solo scopo di beffarmi. Ma, se anche fossero stati falsi, ciò non avrebbe avuto importanza; io li avevo portati con la stessa paura, avevo ugualmente accettato di correre quel rischio.
«E ora tutti eravamo qui, tutti ugualmente salvi, tutti scampati»; ma con i liberatori che tornavano a riscoprirsi maschi e che per paradosso ripristinavano senza alcuna remora l’ordine costituito dei rapporti di forza, che li riconfermava – per citare Orwell – sempre e comunque più uguali degli altri. All’autrice non resta dunque che prendere amaramente atto di come per l’Italia , e soprattutto per le donne, la Liberazione sia stata in fondo una promessa tradita, che non ha avuto comunque il potere di scalfirne l’individualità peculiare che le rende irriducibilmente altre rispetto alla causa vincitrice del mondo maschile:
(…)Con gli anni mi è sembrato di scoprire quanta illusione è nel termine stesso libertà.[…]Ho visto l’Italia perdere la propria indipendenza nel 1945 in nome di una libertà di cui io mi domando il senso oggi (…)Io mi domando anche qual senso abbia l’amore e se parlarne non sia un’ipocrisia o una prova di debolezza. Posso dire che in una donna anche dalle vicissitudini più deludenti la forza dell’amore emerge sempre come da una fonte inestinguibile.
RISORSE E NOTE A MARGINE
– Le enfasi grafiche nelle citazioni (corsivi e grassetti) sono mie;
– E’ stata qui effettuata la scelta di riportare citazioni esclusivamente relative alle vicende storiche comprese tra il bombardamento della città e la sua liberazione non alla trama del romanzo, un capolavoro assoluto del nostro Novecento, per lasciare intatto il piacere della lettura dell’opera- che davvero, davvero meriterebbe di essere letta da ogni donna e di essere inclusa di diritto nel canone delle opere imprescindibili…..ma questa è ben altra questione che tuttavia allontanerebbe troppo (?) dall’argomento di questo post;
– Al romanzo di Alba de Céspedes ed in particolare alla sua partecipazione e posizione sulla Resistenza sono dedicati in rete parecchi contributi; ricordiamo qui la recensione a firma di Giosuè David su La Fallael’invito alla letturadel romanzo pubblicato da Alessia Martoni su Critica letteraria
-Ilcontributo di Rai Cultura all’approfondimento della figura e dell’opera dell’autrice;
-La rilevanza del ruolo delle donne della Resistenza romana, viene giustamente esplicitata e sottolineata nella sala a loro dedicata del Museo della Liberazione di Roma, un tempo sede già sede dellefamigerate celle di detenzione di via Tasso, e vi si sottolinea come sia stato proprio grazie a loro che l’occupazione tedesca non sia riuscita a realizzare il piano di sottomettere e piegare la città, anche e soprattutto moralmente.
Criticare pubblicamente le dichiarazioni politiche delle più alte cariche dello Stato appare sempre inopportuno e di dubbio gusto, dato che appare troppo facile colpire la combinazione fatale di eventuale errore umano e di sovraesposizione mediatica inevitabile . Ma talvolta, nonostante tutti gli inviti del buon senso all’estraneità si sente di non poter davvero tacere senza il rischio di diventare acquiescienti o conniventi – o peggio ancora, indifferenti nel senso gramsciano del termine. Di fronte alledichiarazioni del Presidente del Consiglioin relazione all’interpretazione storica di uno degli episodi più atroci di quella che era oramai già degenerata in una guerra civile è forse opportuno ripercorrere gli eventi che hanno condotto le forze di occupazione tedesche a compiere la fucilazione di trecentotrentacinqueuomini disarmati a vario titolo considerati nemici per motivi politici o razziali.
Roma, luglio 1943 In un’Italia oramai fuori controllo a seguito della caduta del Governo fascista e dell’arresto di Mussolini, nonché a seguito della fuga di Vittorio Emanuele III, il destino del Paese è affidato a Pietro Badoglio, Maresciallo d’Italia e capo di un governo militare nominato il 26 luglio 1943. Nel successivo 14 agosto, Roma è dichiarata città aperta; gli accordi del 10 settembre con le forze di occupazione tedesche, successivi di soli due giorni all’annuncio dell’armistizio di Cassibile, , prevedono la presenza delle truppe tedesche stanziate al di fuori della città. I tedeschi, tuttavia, non esitano a violare l’accordo e per ordine del feldmaresciallo Albert Keisserling la città viene di fatto occupata, con la proclamazione della soggezione al diritto di guerra tedesco per chiunque compisse azioni dirette contro i militari o comunque di resistenza, sciopero o sabotaggio. Viene inoltre organizzato in via Tasso un centro di detenzione e tortura dove vengono deportati molti- sospetti- antifascisti dalle SS agli ordini di Robert Kappler. Entro la fine di settembre Roma è annessa alla Repubblica Sociale Italiana; il successivo 16 ottobre Roma vive l’orrore del rastrellamento al Portico d’Ottavia, previa deposizione delle armi da parte di tutti i membri dell’Arma dei Carabinieri in servizio in città per ordine del generale Graziani, neoproclamato ministro repubblichino della Difesa nazionale. Le forze della neonata Resistenza romana, composta da una galassia di sigle e dunque organizzata in gruppi numericamente esigui e non sempre coordinati nell’azione, non riescono a coinvolgere la maggioranza della popolazione civile (pur protagonista di eroici eposodi di resistenza passiva) e non possono quindi che assistere impotenti alla tragedia.
Immagini del rastrellamento tedesco dei civili ebrei romani
L’azione più incisiva verrà svolta a Roma dai Gruppi di Azione Patriottica, organizzazione paramilitare facente capo al Partito Comunista Italiano . Dal 28 ottobre, anniversario della marcia su Roma, si susseguono assalti diretti e attentati contro le truppe occupanti tedesche; e contro i fascisti repubblichini, come quello in via Tomacelli il 10 marzo del 1944 contro il corteo fascista dei militanti di Onore e Combattimento che celebrava l’anniversario della morte di Giuseppe Mazzini. Già i tedeschi avevano risposto agli attentati fucilando prigionieri anche fuori da Roma, azioni di cui veniva dato regolare comunicato con scopo di deterrenza da ulteriori azioni e di frattura del fronte resistenziale anche tra la popolazione civile. I GAP tuttavia non arretrano; illusi sull’imminente arrivo degli alleati in città a seguito dello sbarco di Anzio , progettano un attentato dinamitardo contro gli occupanti, scegliendo simbolicamente come data il 23 marzo, anniversario della creazione dei Fasci di Combattimento nel 1919. Bersaglio dell’attentato saranno, oltre (di nuovo) al corteo fascista in celebrazione , i tedeschi del regimento di polizia “Bozen”, composto pressoché esclusivamente di altoatesini e formatosi a seguito dell’occupazione tedesca e della creazione di una Zona di Operazione delle Prealpi. Il corteo, in marcia dal poligono di Tor di Quinto, sarebbe passato per il centro storico; il luogo dell’attentato viene individuato in via Rasella, dove oltre a far esplodere 18 kg tritolo misto a pezzi di ferro, precedentemente piazzato su un furgone della nettezza urbana, i Gappisti lanciarono anche diverse bombe a mano; i tedeschi risposero sparando contro le finestre delle abitazioni, convinti che le bombe fossero piovute dall’alto, e procedendo comunque all’arresto di oltre cento civili. Alla fine il bilancio sarà di trentatré morti e di oltre cinquanta feriti tra i militari tedeschi.
La reazione tedesca è ovviamente di sbigottimento feroce. Kurt Mälzer, generale della Luftwaffe e comandante delle forze tedesche di stanza in città, appena giunto sul luogo sbraita la propria volontà di evacuare il quartiere, radunare i civili e fucilarne cinquanta per ciascuna vittima tedesca. Sarà il colonnello Kappler a calmarlo e ad evitare, almeno, una strage indiscriminata, previa promessa di una rapida indagine sull’attentato. Il compito di avvisare l‘Oberkommando des Wermacht , il quartier generale di Hitler a Ratenburg, spetta Dieter Beelitz, capo uffcio delle operazioni di Kesserling, al momento non reperibile perché impegnato ad Anzio. La furia di Hitler è totale; secondo le testimonianze poi rese a processo dai responsabili della strage, avrebbe intimato una rappresaglia immediata, “tale da far tremare il mondo”, ordinando a sua volta di fucilare tra i trenta e i cinquanta italiani per ogni vittima. La decisione finale su come intervenire sarà alla fine assunta da Kesserling, rientrato in serata da Anzio, secondo cui la più appropriata misura di rappresaglia coincide con la proposta di Von Mackensen, generale della 14° armata tedesca ( le truppe d’assalto appunto impegnate ad ostacolare l’avanzata degli Alleati da Anzio verso Roma), di fucilare entro ventiquattr’oredieci italiani perciascun tedescomorto nell’attentato . L’ordine è ufficiale. Quanto alle modalità organizzative e selettive, per così dire, la scelta viene lasciata ai militari competenti. Si pensa immediatamente ai prigionieri già condannati a morte, ma sono troppo pochi, sei o sette, mentre bisogna raggiungere il numero di trecentoventi individui da destinare alla fucilazione , i Todeskandidaten) (il numero salirà poi a trecentotrentacinque a causa della sopraggiunta morte di un altro soldato tedesco, di cui Kappler sarà informato solo verso le 13 del giorno dell’eccidio) L’incarico sarà affidato al capitano Erich Priebke, luogotenente di Kappler, e al suo collega Karl Haas: la lista sarà completata svuotando il centro di detenzione di via Tasso e prelevando esponenti della Resistenza, dichiarati o presunti, fiancheggiatori o altri civili colpevoli di reati minori o comunque sospetti di sentimenti antifascisti. Non basterà ancora. La lista sarà dunque completata con il nome di settantacinque cittadini ebrei, già destinati alla deportazione (su suggerimento del comandante della Gestapo di Verona, Wilhelm Harster.
Le difficoltà logistiche, tuttavia, non sono poche: in un rimpallo di responsabilità, infatti, i vari corpi armati dell’esercito e le stesse SS si rifiutano di eseguire materialmente la strage, primi fra tutti gli stessi compagni di reggimento delle vittime, agli ordini del comandante Donek. E’ inoltre necessario, come “necessario atto simbolico”, che anche un certo numero di ufficiali tedeschi sia presente e partecipi all’esecuzione. Alla fine l’onere ricadrà sullo stesso Kappler, nel suo ruolo di comandante della Gestapo a Roma, che viene individiduato come corpo cui l’esecuzione spetta di competenza . Resta poi da individuare un luogo adeguato per l’esecuzione che consenta al tempo stesso l’occultamento dei cadaveri; a tale scopo vengono scelte le gallerie minerarie per l’estrazione della pozzolana, già antiche catacombe cristiane, sulla via verso Ardea, a quattro chilometri dalla capitale; radunati tutti i prigionieri, questi vengono condotti a gruppi di cinque nelle gallerie, viene loro richiesto il nome, vengono fatti inginocchiare e giustiziati con un colpo di pistola alla nuca. Alle undici di quella sera stessa, le forze d’occupazione tedesche dirameranno in città il comunicato secondo cui “dieci comunisti. badogliani ” sarebbero stati fucilati per ogni vittima dell’attentato del 23 marzo. E conclude sommariamente- è il caso dire- : “L’ordine è già stato eseguito“.
Il sito del Mausoleo delle Fosse Ardeatine , organizzato in diverse sezioni che oltre ad illustrare il luogo ripercorre gli eventi e soprattutto presentala galleria dei volti delle vittime . Anche se alcuni nomi sono ovviamente più noti di altri, noi non ce la sentiamo di effettuare una scelta e preferiamo affidarle tutte , comprese le nove che non sono potute essere identificate alla pietà e all’omaggio di chi legge. RIportiamo però qui di seguito, in memoria e per voto, l’elenco completo dei loro nomi e dei relativi capi di imputazione. Ci si accuserà forse di pedanteria, ma è fin troppo noto che in storia ogni imprecisione , o banalizzazione, o minimizzazione degli eventi accaduti rischi di trasformarsi, certo involontariamente, nell’anticamera del revisionismo.
Amoretti Ivanoe (Imperia, 12 novembre 1920) – Sottotenente del Regio Esercito in servizio permanente effettivo (partigiano) – Fronte militare clandestino di resistenza
Angelai Aldo (Roma, 26 dicembre 1917) – Macellaio – PSIUP.
Angeli Virgilio (Grossendaerdof, 20 dicembre 1899) – Pittore.
Avolio Carlo (Siracusa, 14 settembre 1895) – Impiegato S.A.I.B. – Partito Democratico del Lavoro (Unione Nazionale); Membro della Brigata Goffredo Mameli.
Bendicenti Donato (Rogliano, Cosenza, 18 ottobre 1907) – Avvocato – Partigiano combattente; PCI; Appartenente alla Banda patrioti del Trionfale diretta dal colonnello Vetere – Medaglia d’argento al valor militare.[66]
Campanile Silvio (Roma, 24 giugno 1905) – Commerciante – PSIUP.
Canacci Ilario (Roma, 12 febbraio 1927) – Secondo cameriere d’albergo – Bandiera Rossa – Arrestato il 29 febbraio 1944 – A 17 anni è tra le più giovani vittime dell’eccidio.
Celani Giuseppe (Roma, 28 agosto 1901) – Ispettore capo dei servizi annonari del governatorato di Roma – Partito Democratico del Lavoro (Unione Nazionale); Partigiano.[71]
Cerroni Oreste (Roma, 16 settembre 1874) – Tipografo – Partito d’Azione – Arrestato perché stampava con altri 3 compagni manifesti di propaganda contro i nazifascisti.
Checchi Egidio (Gallarate, Varese, 29 luglio 1892) – Meccanico – Arrestato come militante del PCI.
Chiesa Romualdo (Roma, 1º settembre 1922) – Studente di ingegneria – Partigiano combattente (Movimento dei Cattolici comunisti) – Accusato di traffico d’armi – Medaglia d’oro al valor militare.[72]
Chiricozzi Aldo Francesco (Civitavecchia, Roma, 12 settembre 1925) – Impiegato postelegrafonico – Arrestato il 21 febbraio 1944 con l’accusa di fornire sigarette ai partigiani della Banda d’Achille.
Ciavarella Francesco (Pistoia, 7 gennaio 1917) – Impiegato nella Marina Mercantile – Partito Comunista Italiano. Riconosciuto partigiano combattente caduto per la lotta di Liberazione nella banda abruzzese dedicata a suo nome.
Cibei Duilio (Roma, 8 gennaio 1929) – Falegname – Partito d’Azione – Arrestato il 7 febbraio 1944 con il fratello Gino con l’accusa di sabotaggio – A 15 anni è con Michele Di Veroli la vittima più giovane dell’eccidio.
Cibei Gino (Roma, 13 maggio 1924)- Meccanico – Partito d’Azione – Arrestato il 7 febbraio 1944 con il fratello Gino con l’accusa di sabotaggio.
Cinelli Francesco (Roma, 26 febbraio 1899) – Impiegato della società Romana Gas – Partito Comunista Italiano – Arrestato con il fratello Giuseppe il 22 marzo 1944.
Cinelli Giuseppe (Roma, 17 gennaio 1902) – Portatore ai mercati generali – PCI – Arrestato con il fratello Francesco il 22 marzo 1944 con l’accusa di sostenere il movimento partigiano.
Cocco Pasquale (Sedilo, Oristano, 5 gennaio 1920) – Studente.
Coen Saverio (Roma, 5 ottobre 1910) – Commerciante – Partigiano combattente – Collabora con i servizi segreti inglesi – Arrestato il 22 febbraio 1944 – Vittima della Shoah – Medaglia d’argento al valor militare.[73]
Conti Giorgio (Roma, 17 maggio 1902) – Ingegnere (CLN).
Costanzi Guido – Impiegato, Sottotenente contabile del Corpo Militare della Croce Rossa Italiana (Fronte Militare Clandestino) – Medaglia d’argento al valor militare.
Cozzi Alberto (Roma, 23 marzo 1925) – Meccanico; partigiano combattente – Medaglia d’oro al valor militare.[74]
Di Consiglio Cesare (Roma, 7 novembre 1912) – Operaio – Arrestato il 21 marzo 1944 insieme ai suoi familiari per motivi razziali – Vittima della Shoah.
Di Consiglio Franco (Roma, 21 marzo 1927) – Macellaio – Arrestato il 21 marzo 1944 insieme ai suoi familiari per motivi razziali – Vittima della Shoah – A 17 anni è tra le più giovani vittime dell’eccidio.
Di Consiglio Marco (Roma, 15 maggio 1924) – Macellaio – Arrestato il 21 marzo 1944 insieme ai suoi familiari per motivi razziali – Vittima della Shoah
Di Consiglio Mosè (Roma, 25 gennaio 1870) – Commerciante – Arrestato il 21 marzo 1944 insieme ai suoi familiari per motivi razziali – Vittima della Shoah
Di Consiglio Salomone (Roma, 20 febbraio 1899) – Venditore ambulante – Arrestato il 21 marzo 1944 insieme ai suoi familiari per motivi razziali – Vittima della Shoah
Di Consiglio Santoro (Roma, 23 settembre 1925) – Macellaio – Arrestato il 21 marzo 1944 insieme ai suoi familiari per motivi razziali – Vittima della Shoah
Di Nepi Alberto (Roma, 21 settembre 1879) – Commerciante – Arrestato il 15 febbraio 1944 per motivi razziali – Vittima della Shoah
Di Nepi Giorgio (Roma, 23 settembre 1919) – Viaggiatore di commercio – Arrestato il 22 marzo 1944 per motivi razziali – Vittima della Shoah
Di Nepi Samuele (Milano, 8 febbraio 1908) – Commerciante – Arrestato il 13 marzo 1944 per motivi razziali – Vittima della Shoah
Di Nola Ugo (Roma, 12 febbraio 1901) – Rappresentante di commercio – Arrestato il 20 febbraio 1944 per motivi razziali – Vittima della Shoah
Diociajuti Pier Domenico (Padova, 10 maggio 1879) – Commerciante – Partito d’Azione – Arrestato il 9 marzo 1944 con l’accusa di sabotaggio.
Di Peppe Otello (Chiesto, 31 maggio 1890) – Falegname ebanista – PCI – Conserva documenti, nasconde fuggiaschi, raccoglie viveri per le bande partigiane – Arrestato il 1º febbraio 1944.
Di Porto Angelo (Roma, 1º aprile 1918) – Commesso; venditore ambulante – Arrestato il 23 marzo 1944 per motivi razziali – Vittima della Shoah.
Di Porto Giacomo (Roma, 15 dicembre 1895) – Venditore ambulante – Arrestato il 24 marzo 1944 per motivi razziali – Vittima della Shoah.
Di Porto Giacomo (Roma, 10 aprile 1890) – Venditore ambulante – Arrestato il 24 marzo 1944 per motivi razziali – Vittima della Shoah.
Di Salvo Gioacchino (Napoli, 3 febbraio 1914) – Impiegato – Democrazia del Lavoro – Arrestato il 2 marzo 1944.
Di Segni Armando (Roma, 27 giugno 1913) – Venditore ambulante – Arrestato il 24 marzo 1944 per motivi razziali – Vittima della Shoah.
Di Segni Pacifico (Roma, 26 gennaio 1922) – Venditore ambulante – Arrestato il 23 marzo 1944 per motivi razziali – Vittima della Shoah.
Di Veroli Attilio – Commerciante – Arrestato il 18 marzo 1944 con il padre per motivi razziali – Vittima della Shoah
Di Veroli Michele (Roma, 3 febbraio 1929) – Venditore ambulante – Arrestato il 18 marzo 1944 con il padre per motivi razziali – Vittima della Shoah – A 15 anni è con Duilio Cibei la vittima più giovane dell’eccidio.
Ercolani Giorgio (Roma, 1908) – Tenente colonnello di Stato Maggiore del Regio Esercito – Partito d’Azione – Arrestato il 22 gennaio 1944.
Ercoli Aldo (Roma, 7 maggio 1916) – Pittore – Partito d’Azione – Arrestato il 12 gennaio 1944.
Fabri Renato (Vetralla, Viterbo, 25 dicembre 1888) – Commerciante – Partito d’Azione; Capo Zona e sabotatore – Arrestato il 2 marzo 1944.
Fabrini Antonio (Zagarolo, Roma, 21 febbraio 1900) – Stagnino – Movimento Comunista Italiano; (CLN) – Arrestato il 13 marzo 1944 con l’accusa di aver fornito materiale per la fabbricazione di bombe.
Fano Giorgio (Roma, 4 agosto 1907) – Dottore in scienze commerciali – Arrestato il 15 marzo 1944 per motivi razziali – Vittima della Shoah.
Fantacone Alberto (Roma, 25 settembre 1916) – Avvocato; Dottore in legge – Partito d’Azione; Fronte militare clandestino di resistenza – Brigata Goffredo Mameli (Banda Neri) – Arrestato il 28 gennaio 1944 – Medaglia d’argento al valor militare.[80]
Fantini Vittorio (Roma, 10 novembre 1918) – Farmacista – PCI – Arrestato il 16 marzo 1944 per aver dato ospitalità a prigionieri inglesi e americani.
Fatucci Sabato Amadio (Roma, 27 novembre 1877) – Venditore ambulante – Arrestato il 22 marzo 1944 per motivi razziali – Vittima della Shoah.
Felicioli Mario (Roma, 20 ottobre 1901) – Elettrotecnico – PCI).
Finamonti Loreto (Nespolo (RI), 20 dicembre 1900) – Commerciante (CLN). Partigiano combattente caduto per la lotta di Liberazione. Riconosciuto nella banda abruzzese Turanense.
Giglio MaurizioCervo (Parigi, 20 dicembre 1920) – Tenente di P.S. dei “Metropolitani” di Roma (OSS) – Medaglia d’oro al valor militare. Al Ten. Maurizio Giglio è intitolata la caserma delle Volanti della Polizia di Stato a Roma, in via G. Reni.[88]
Marchesi Alberto (Roma, 22 settembre 1900) – Commerciante, ex ardito bersagliere; partigiano combattente (PCI) – Medaglia d’oro al valor militare.[101]
Moscati Emanuele (Roma, 17 dicembre 1914) – Venditore ambulante – Arrestato il 18 marzo 1944 per motivi razziali – Vittima della Shoah – Fratello di Marco Moscati.
Moscati Marco – (Roma, 1º luglio 1916) – Venditore ambulante – Partigiano; Partito Comunista Italiano – Arrestato il 18 febbraio 1944 per motivi razziali – Vittima della Shoah – Fratello di Emanuele Moscati.
Moscati Pace (Roma, 21 maggio 1899) – Venditore ambulante – Arrestato il 20 marzo 1944 per motivi razziali – Vittima della Shoah – Fratello di Vito Moscati.
Moscati Vito (Roma, 26 luglio 1900) – Elettricista – Arrestato il 25 febbraio 1944 per motivi razziali – Vittima della Shoah – Fratello di Pace Moscati.
Mosciatti Carlo (Matelica, Macerata, 26 novembre 1924) – Impiegato – Arrestato con il sospetto di aver deposto del materiale esplosivo sul tram dove viaggiava.
Napoleone Agostino (Cagliari, 14 settembre 1918) – Sottotenente di vascello della Regia Marina – Fronte Militare Clandestino – Medaglia d’argento al valor militare.[106]
Natili Celestino (Roma, 18 luglio 1920) – Commerciante – PSIUP – Si consegna il 21 marzo 1944 alla polizia nella speranza vana di salvare il padre, Mariano, già detenuto al suo posto.
Natili Mariano (Amatrice, Rieti, 18 maggio 1887) – Commerciante – Arrestato il 12 febbraio 1944 per costringere il figlio Celestino a costituirsi.
Perugia Angelo (Roma, 20 agosto 1906) – Venditore ambulante – Partito d’Azione – Svolge attività di propaganda, distribuendo giornali e volantini – Arrestato il 4 marzo 1944 per motivi razziali – Vittima della Shoah
Petocchi Amedeo.
Petrucci Paolo – Professore di lettere – Partigiano.[110]
Pettorini Ambrogio – Agricoltore (partigiano).
Piasco Renzo (Roma, 13 giugno 1925) – Ferroviere; Aiuto macchinista F.S. – Bandiera Rossa – Attivo nel Quartiere Monte Sacro – Arrestato il 3 febbraio 1944.
Piattelli Cesare (Roma, 7 aprile 1900) – Venditore ambulante – Arrestato il 24 marzo 1944 per motivi razziali – Vittima della Shoah
Piattelli Franco (Roma, 22 marzo 1924) – Commesso – Arrestato il 23 marzo 1944 assieme al padre Giacomo per motivi razziali – Vittima della Shoah
Piattelli Giacomo (Roma, 18 settembre 1897) – Piazzista – Arrestato il 23 marzo 1944 assieme al figlio Franco per motivi razziali – Vittima della Shoah
Pierantoni Luigi – (Verbania, 2 dicembre 1905) – Medico, Tenente del Corpo Militare della Croce Rossa Italiana – Partito d’Azione; Partigiano.[111]
Zarfati Alessandro (Roma, 8 settembre 1915) – Commerciante – Arrestato il 17 marzo 1944 per motivi razziali – Vittima della Shoah.
Zicconi Raffaele (Sommatino, Caltanissetta, 13 agosto 1911) – Impiegato – Partito d’Azione – Consegnava materiale di propaganda, nascondeva armi e aiutava ebrei – Arrestato il 7 febbraio 1944, mentre preparava un atto di sabotaggio.
Zironi Augusto (20 giugno 1920) – Sottotenente di vascello della Regia Marina – Fronte Militare Clandestino – Arrestato il 19 marzo 1944 – Medaglia d’argento al valor militare.
Tuchman Heinz Eric, nato il 18/01/1911 (sacello n. 276), salma individuata nel 2020
Francia, 26 dicembre 1964. Sul Journal officiel viene pubblicata la legge relativa alla imprescrittibilità dei reati nazisti . La sollecitazione era arrivata dall stessa Germania, che nell’autunno dello stesso anno, in vista della scadenza dei termini per la prescrizione la cui data sarebbe caduta l’8 maggio 1865 (anniversario della liberazione di Berlino,, per scongiurarne l’eventualità chiedeva agli altri Stati europei la documentazione relativa ai crimini nazisti, per intentare processi e scongiurare dunque lo spettro dell’impunibilità dei criminali. La questione suscita proteste in tutto il mondo, e nondimeno in Europa e in Francia, già vittima dell’occupazione nazista; a levare la propria voce contro la sola possibilità di un orrore simile è il filosofo Vladimir Jankelevitch, che nel suo pamplhet Pardonner?( poi ripubblicato assieme a ad altri scritti nel volume L’imprescriptible:dimostra come fosse impossibile la sola ipotesi, ribadendo l’assoluto abominio (metafisico, come lui stesso lo definisce) e l’impossibilità di paragonare lo sterminio degli ebrei (metonimizzato in Auschwitz) a qualsiasi altro orrore o massacro della storia.
I pervertiti [del senso morale,ndr], quando parliamo loro di Auschwitz, ci oppongono le sofferenze dei tedeschi durante la guerra, la distruzione delle loro città, l’esodo delle loro popolazioni davanti al vittorioso esercito russo. A ciascuno i suoi martiri, giusto? La sola idea di mettere in parallelo, o sullo stesso piano, l’indicibile calvario dei deportati e la giusta punizione dei loro carnefici, questa idea è una perfidia calcolata, a meno che non sia una vera e propria perversione del senso morale.
La preoccupazione di Jankélévitch è quella di distinguere l’Olocausto dallo sfondo dei massacri mostrandone e analizzandone la specificità, diversa dalle catastrofi militari che non fanno distinzioni tra le vittime e individuata nel raffinato sadismo tedesco che si prefiggeva come scopo la “lunga” degradazione” e l’annientamento morale delle vittime prima della loro eliminazione, in un miscuglio infernale di ferocia e “pedanteria metafisica“:
La prescrizione, la prescrittibilità stessa dell’orrore non è dunque possibile. La Germania e l’Italia, come l’Europa intera, dovranno convivere con l’orrore, perché sopportarne il peso significa rendere alle vittime dello sterminio nazista l’ultimo, l’unico onore possibile. La ferita, la frattura nel tessuto etico è insanabile; che rimanga tale è l’unica risposta etica accettabile, centro gravitazionale attorno a cui ogni riflessione etica che tale sia realmente deve ruotare senza poter cessare di interrogarsi-e tormentarsi:
Il voto del Parlamento francese afferma giustamente un principio e, in un certo senso, un’impossibilità a priori: i crimini contro l’umanità sono imprescrittibili, cioè non possono essere prescritti; il tempo non ha presa su di loro. (…)È generalmente incomprensibile che il tempo, processo naturale senza valore normativo, possa esercitare un’azione mitigante sull’insopportabile orrore di Auschwitz.(…)Perché questa agonia durerà fino alla fine del mondo.
RISORSE E NOTE A MARGINE
– La traduzione del testo di Jankélévitch nei passaggi e nelle citazioni riportate nel post è mia; si segnala però qui l’edizione italiana, nella traduzione di Daniel Vogelmann per i tipi Giuntina;
-Jankélévitch (la cui opera in Italia è pressoché misconosciuta, pur essendo disponibile nei volumi Einaudi), profondo ammiratore e conoscitore della cultura tedesca (laureatosi con una tesi su Schelling), abiurerà totalmente a quest’ultima , inorridito per i crimini nazisti. Per lui era imperdonabile che i tedeschi, a cui egli imputava, a vario titolo e in diverso grado ma senza sconti, la colpa dello sterminio,”potessero mangiare e bere e vivere tranquillamente“, senza dar segno che l’orrore di Auschwitz avesse lasciato la minima traccia sulle loro coscienze.
Nell‘intervista rilasciata a Daniele Nalbone e pubblicata sulle pagine di MicroMega il 24 aprile 2021, – sul numero dedicato dalla rivista alla ricorrenza dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo, Paolo Berizzi, giornalista e scrittore, invitato ad un’analisi sulla situazione politica italiana osserva amaramente, tra l’altro, come « l’antifascismo non [sia] un tema nell’agenda del Paese» a nessun livello, dalla magistratura, al legislatore, alle forze politiche. Potrebbe, detta così, sembrare una buona notizia; delinea l’immagine di un Paese che abbia fatto definitivamente i conti con il periodo più drammatico e criminale della propria storia, e che abbia relegato qualsiasi ulteriore compromissione con il passato- e il presente- delle realtà politiche di estrema destra, e dei loro crimini passati e presenti, nella sfera dell’impensabile.
Sembra una favola bella; naturalmente tutti sappiamo che la realtà è ben diversa e che Berizzi vive sotto scorta da tempo per le continue minacce di morte ricevute dai gruppi neofascisti e neonazisti di cui il giornalista da anni indaga- e denuncia- le dinamiche di formazione, reclutamento e propaganda , senza misconoscere in questo le gravi responsabilità dell‘informazione che « ormai da anni, salvo poche eccezioni, si è unita al coro di chi ha fatto finta di niente, sottovalutato, minimizzato, banalizzato il problema del ritorno delle forze fasciste e del messaggio fascista in Italia». Il che implica, dunque, che dall’orizzonte del dibattito mediatico e culturale sia scomparso anche l’orizzonte della Costituzione italiana, oggi sterilizzata dalla retorica celebrativa ma scritta da coloro che il fascismo storico lo avevano in tutti i modi combattuto e avversato e ispirata dalla ferma volontà di impedirne il ritorno sotto qualsiasi forma. Nella dodicesima delle “Disposizioni transitorie e finali della Repubblica italiana”- come nessuno ignora, si ribadisce che
È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. In deroga all’articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dalla entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista.
La suddetta disposizione trovava il proprio perfezionamento giuridico con l’emanazione di un apposito provvedimento attuativo, la legge n.645 del 20 giugno 1952, a firma dell’allora ministro dell’Interno Mario Scelba, su incarico del Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, consapevole dei rischi di destabilizzazione che correva la democrazia di nuovo conio e della lacerazione profonda che ancora attraversava il Paese. Così l’articolo 1 della suddetta legge riconduce alla riorganizzazione del partito fascista tutti i casi in cui «una associazione o un movimento persegue finalita’ antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politico o propugnando la soppressione delle liberta’ garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attivita’ alla esaltazione di esponenti, principii, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista».
Ancora più esplicito appare l’articolo 4, in cui viene dichiarata reato anche la semplice apologia di fascismo, vale a dire la pubblica manifestazione di esaltazione o consenso relativa ad «esponenti, principii, fatti o metodi del fascismo oppure [al]le finalita’ antidemocratiche proprie del partito fascista», ritenendo come aggravante il fatto che tale esaltazione avvenga «col mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione o di propaganda». La condanna importa la privazione dei diritti indicati nell’art.28, comma secondo, n. 1, del Codice penale per un periodo di cinque anni.
In realtà, l’applicazione della suddetta legge si è sempre scontrata con accese polemiche, alimentate soprattutto dagli esponenti del Movimento Sociale Italiano, i cui esponenti venivano- evidentemente- spesso accusati del reato di apologia di fascismo. Si è addirittura giunti, e ripetutamente, ad invocare il principio di incostituzionalità, indicando il contrasto con l’art.21 comma 1 della Costituzione, che garantisce la libera manifestazione di pensiero e di parola. A dichiarare l’infondatezza della pretesa incostituzionalità della legge sarà la sentenza n.1 del 16 gennaio 1957, la prima emessa dallaCorte Costituzionalepresieduta da Enrico De Nicola,già primo presidente della Repubblica, che in relazione ai processi di Torino, Roma e Perugia aperti proprio ai sensi della legge Scelba contro militanti che « salutavano romanamente» dichiarerà che «La riprova che l’apologia, in realtà, consista in una istigazione indiretta si desume dall’art. 414 del Codice penale (che non trovasi modificato nel progetto preliminare per la riforma del detto codice, redatto dall’ultima Commissione ministeriale), articolo il quale – sotto l’intestazione “Istigazione a delinquere” – nell’ultimo comma prevede precisamente l’apologia di uno o più delitti. Appunto per ciò la dottrina ha ritenuto che il reato di apologia costituisca una forma di istigazione indiretta». La stessa posizione sarà ribadita in un’ulteriore sentenza della Corte (la n.74 del 25 novembre 1958) , presieduta dall’ assai meno specchiato Gaetano Azzariti, antisemita della prima ora e già presidente della famigerata Commissione sulla razza, in cui, al fine di rimuovere ogni possibile equivoco interpretativo, si legge :
Non crede questo Supremo Collegio che il criterio interpretativo di così ampia portata adottato dalla Corte costituzionale sia suscettibile di modificazioni e che esso non conservi la sua validità anche quando non trattasi di atti che integrino vera e propria apologia del fascismo ma si esauriscono in manifestazioni come il canto degli inni fascisti,poiché si ha ragione di ritenere anche che queste manifestazioni di carattere apologetico debbano essere sostenute, per ciò che concerne il rapporto di causalità fisica e psichica, dai due elementi della idoneità ed efficacia dei mezzi rispetto al pericolo della ricostituzione del partito fascista e che, quando questi requisiti sussistono, l’ipotesi di cui all’art. 5 legge citata è costituzionalmente legittima.
Il pronunciamento della Corte costituzionale sulla (cosiddetta) legge Scelba e sul carattere di reato penale della tentata ricostituzione del partito fascista come dell’apologia di fascismo appare dunque incontrovertibile; l’altezza dell’istituzione giuridica ne sacralizza il principio. Ovviamente- ed evidentemente- tutto questo non è bastato, nei settant’anni successivi, a sradicare il fascismo- ed il suo nostalgico e inconfessato rimpianto- dal comune sentire, complice la perenne indifferenza, da parte del decisore politici, di quel disagio sociale che con proporzioni e connotazioni diverse costituisce la grande ombra della nostra democrazia e che non ha forse mai ricevuto le risposte che avrebbe meritato, divenendo il terreno di coltura ideale per la sopravvivenza e la proliferazione di gruppi di chiara ispirazione fascista, Ma siccome non è previsto dal nostro ordinamento giuridico che i principi costituzionali possano essere invalidati dalla loro mancata applicazione in nome di connivenze e ammiccamenti più o meno inconfessati, l’apologia di fascismo resta un reato penale fino a quando sarà in vigore la Costituzione repubblicana, dichiaratamenteispirata appunto, non lo dimentichiamo mai, ai – e dai- princìpi dell’antifascimo.
Buon 25 Aprile a tutti.
NOTE A MARGINE
Il contributo di David Matoussa su Gli stati generali, che affronta il discorso sulla rimozione collettiva e sui ” conti sospesi” con il fascismo anche citando i libro dello storicoFrancesco Filippi, volti appunto ad indagare le ragioni del malcelato rimpianto di una parte (purtroppo considerevole) dell’opinione pubblica per il passato fascista (nella sua dimensione mitizzata). A chi giudichi inconcepibile l’assegnazione della presidenza della Corte costituzionale ad una figura come Azzariti , i libri di Filippi potranno dare un’esauriente sebbene indigesta risposta ;
-A chiunque voglia avere una percezione più esatta della gravità e della diffusione dell’ideologia fascista in Italia e delle strategie di coinvolgimento di giovani e giovanissimi, corre(rebbe) l’obbligo della lettura del volume di Berizzi, L’educazione di un fascista, che non sapremmo definire altrimenti se non dolorosamente illuminante . All’autore va, naturalmente, la nostra solidarietà più profonda, unita all’amarezza per il paradossale rovesciamento dei ruoli in cui è la vittima di attacchi e minacce ad essere privata della libertà :
Eppure, sono stato messo sotto scorta per le minacce nazifasciste. Fosse accaduto negli anni Settanta sarebbe stato fisiologico, ma nel 2021 è preoccupante. Ed è un paradosso: chi denuncia i fascisti finisce sotto scorta, mentre loro sono liberi.
1938, annus horribilisdella storia d’Europa. Pochi mesi prima che anche nel nostro Paese si perpetrasse la criminale infamia delle leggi razziali, la Cancelleria austriaca cede definitivamente a Hitler e al progetto di annessione alla Germania. Alla celebrazione ufficiale dell‘Anschlüss austriaca assiste una folla delirante di 100000 persone che si riunisce nella centralissima Heldenplatz( Piazza degli eroi) a Vienna per assistere e plaudire al trionfo nazionalsocialista. L’orrore di quel giorno risuonerà– è proprio il caso di dire, come vedremo- a lungo nelle pagine degli scrittori che fin da subito, e senza compromessi, hanno fatto dell’antinazismo la propria cifra esistenziale e artistica: Klaus Mann e Thomas Bernhard.
Sembra destino- o forse un’attenzione o un’insistenza personali, se preferite- che le riflessioni di questo blog a proposito del 25 Aprile e dintorni debbano vertere sul linguaggio. Sarà forse perché l’anniversario della Liberazione costituisce la più importante delle celebrazioni civili, che la retorica del consenso si appropria, spesso indebitamente e illecitamente, delle parole che gravitano attorno a questa data storica, contando sull’enorme risonanza emotiva che spesso trascende la (o prescinde dalla) conoscenza degli eventi. «Liberazione» è una parola che oggi più che mai ci sentiamo cucita addosso, soprattutto perché da circa due mesi, da quando cioè è stato ufficialmente dichiarato lo stato d’emergenza del Paese con conseguente blocco delle attività produttive e di gran parte delle libertà individuali, siamo stati esposti ad una continua esortazione alla necessità di «resistere» e di «fare la nostra parte» nella «guerra in atto» contro il «nemico invisibile», recuperando dunque tutta la retorica della guerra per la quale i capi di stato e di governo continuano a rivelare , come vuole James Hillman, «un terribile amore». E siccome l’antidoto migliore contro la retorica credo resti la memoria degli eventi, mi scuserete se colgo l’occasione per richiamare qui i fatti di quei giorni, certo noti a voi tutti, per restituire il contesto, e dunque pieno senso e pregnanza alle parole che li ricordano, liberandole almeno in parte dall’abuso.
I tuoi capelli di cenere, Sulamith: con il verso più terribile della Todesfuge di Paul Celan ricordiamo tutte le vittime dell’Olocausto rendendo omaggio adAnna Franke Etty Hillesum, entrambe ebree olandesi vittime della persecuzione nazista.per la testimonianza che ci hanno lasciato di un’umanità conservata intatta, non scalfita da lutti, dolori e privazioni orrende, che ancora vive nelle pagine dei loro diari e delle lettere, impossibili da leggere senza profonda emozione.
O Pompeo, primo dei miei amici, che spesso corresti con me il pericolo estremo nell’esercito di Bruto, chi ti restituì Quirite agli dei patrii e al cielo d’Italia?
Con te, spesso trascorsi tra le coppe le lunghe giornate, incoronandomi il capo lucido di malobatro sirio; e con te, abbandonata alquanto vilmente la parmula, provai la rotta sfrenata di Filippi, quando i valorosi furono sconfitti e gli spavaldi batterono il mento nella polvere sozza. […]
Quando si accosta ad Orazio facendone prova di traduzione con l’asprezza maldestra dell’adolescenza, Pavese non può immaginare che, esattamente mille anni dopo battaglia di Filippi, , anche a lui toccherà assistere alla guerra fratricida che insanguinerà l’Italia fino alla Liberazione, e in cui moriranno molti dei suoi amici più cari. L’immagine dell’Ode II,7in cui Orazio rievoca l’abbandono dello scudo come simbolo della sua diserzione tormenterà Pavese per sempre, fino alla sua ultima raccolta, quando di quei versi si ricorderà per provare a dar voce a quel «vecchio rimorso» che lo accompagnerà fino alla fine.
Sei milioni di ebrei, sei milioni di esseri umani sono stati condotti a morire, senza potersi difendere e, nella maggior parte dei casi, senza averne il minimo sospetto. Il metodo utilizzato fu l’accumulazione del terrore. Dapprima ci furono l’abbandono calcolato, le privazioni e l’umiliazione, allorché coloro che erano di debole costituzione fisica morivano insieme con quelli che erano abbastanza forti e ribelli per togliersi la vita. In seguito venne la fame, a cui si aggiunse il lavoro forzato, quando le persone morivano a migliaia, ma a intervalli diversi di tempo a seconda della loro resistenza. Poi vennero le fabbriche della morte e tutti morirono insieme: giovani e vecchi, deboli e forti, malati e sani. Morirono non come individui, non come uomini e donne, bambini o adulti, ragazzi o ragazze, buoni o cattivi, belli o brutti, ma furono ridotti al minimo denominatore comune della vita organica, sprofondati nell’abisso piú cupo dell’eguaglianza primaria. Morirono come bestiame, come cose che non avevano né corpo né anima e nemmeno un volto su cui la morte avrebbe potuto apporre il suo sigillo.È in questa eguaglianza mostruosa, senza fraternità né umanità (…), che si scorge, come riflessa in uno specchio, l‘immagine dell’inferno.