Documenti e testimonianze

Dalla parte di lei. Note a margine sull’antifascismo al femminile

Questo post è stato pensato in dialogo con i due post recentemente pubblicati su NonSoloProust e dedicati alla Resistenza delle donne di Benedetta Tobagi e al Diario partigiano di Ada Gobetti, da cui emergono gli ostacoli di ordine evidentemente culturale che hanno impedito fino ad oggi di riconoscere l’effettivo contributo  e la peculiarità dell’impegno femminile nell’opposizione al nazifascismo. A sperimentare  in prima persona la frustrazione di questo mancato riconoscimento  è – anche – Alba de Céspedes,che nella Resistenza fu impegnata  in prima persona e che retrospettivamente compie una disamina impietosa delle dinamiche maschiliste e patriarcali resistenti, quale ironia,anche nei gruppi partigiani. De Céspedes , che con un’espressione forse oramai desueta può certamente definirsi una donna di temperamento, è già compromessa con il regime fascista a causa della pubblicazione di Nessuno torna indietro, romanzo che sovverte dal profondo i canoni della femminilità disegnati dal regime fascista, ma che riesce ad eludere la censura grazie al notevole successo di critica e pubblico, nonché dell’ autorevolezza dei recensori Sem Benelli e Francesco Flora, (entrambi, per inciso, firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascistiNella prefazione al romanzo Dalla parte di lei  – sorprendente opera di indagine sulla condizione femminile, nei suoi aspetti anche più oscuri e reconditi, che si intreccia con le vicende storiche legate alloccupazione tedesca di Roma, all’armistizio, alla formazione e all’azione delle diverse anime  della  Resistenza romana -, l’autrice dichiara espressamente come i suoi ideali  romantici legati ad una concezione eroica e pura della Resistenza fossero stati ben presto disattesi, e manifesta la propria insofferenza per lo stato di minorità in cui  si pretendeva che le donne rimanessero avvilite  nonostante il «supremo sacrificio compiuto da donne combattenti sia antifasciste che fasciste»:

Questo libro fu anche una mia presa di coscienza circa l’entusiasmo che mi aveva ingenuamente guidata nel combattimento per la libertà e nel convincimento che fosse possibile vivere l’amore come un’avventura senza limiti e senza ambiguità. Già in quegli anni, tra il 1946 ed il 1949, queste mie convinzioni cominciavano a vacillare. […]. L’esperienza della guerra e dell’impegno politico avevano resi ancor più intollerabili tali vincoli.  L’eguaglianza della donna e dell’uomo di fronte al pericolo e alla morte era ormai divenuta palese per me. Il passaggio delle linee del fronte sul fiume Sangroaveva rafforzato irrevocabilmente tale convinzione. Sapevo ormai che un uomo può tremare e una donna restare impavida durante un bombardamento di artiglieria.

L’Italia dell’immediato dopoguerra è ovviamente un immenso cumulo di macerie anche morali, su cui bisogna ricostruire una nazione attraverso il senso di aggregazione ed appartenenza.; la fretta, la necessità di accantonare gli odi e il desiderio di vendetta, ancora fumanti come le rovine dei bombardamenti, devono necessariamente condurre ad un compromesso, ad un superamento delle rivalità e delle differenze di parte. Ma questa operazione non è indolore, e soprattutto, non consente l’elaborazione del trauma indicibile della guerra civile, ma solo la sua  provvisoria rimozione attraverso il ritorno ad una normalità che tale oramai non poteva più essere , rivelandosi al contrario nel proprio desolante squallore:

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D’altronde l’insofferenza dei vincoli che rattenevano le donne dall’esprimere la loro volontà di azione, pesava vieppiù su di me. Tale insofferenza si era già espressa nel mio primo romanzo Nessuno torna indietro, ma non avevo più ventisette anni come all’epoca della pubblicazione di esso. L’esperienza della guerra e dell’impegno politico avevano resi ancor più intollerabili tali vincoli. L’eguaglianza della donna e dell’uomo di fronte al pericolo e alla morte era ormai divenuta palese per me.
Il passaggio delle linee del fronte sul fiume Sangro aveva rafforzato irrevocabilmente tale convinzione. Sapevo ormai che un uomo può tremare e una donna restare impavida durante un bombardamento di artiglieria. In seguito la documentazione storica mi avrebbe reso edotta del supremo sacrificio compiuto da donne combattenti sia antifasciste che fasciste.
Mi esasperava dunque con il ritorno alla normalità ritrovarmi nella condizione di subalterna che la società mi attribuiva in quanto donna.
Soltanto una donna poteva capire in quel tempo quanto fosse irritante sentirsi sotto tutela.


Roma, 16 luglio 1943. I bombardieri delle forze alleate colpiscono il quartiere San Lorenzo. E’ il primo bombardamento sulla capitale (e purtroppo non sarà l’unico): l’attacco avviene in pieno giorno, la città è totalmente colta di sorpresa, le abitazioni crollano, le perdite umane sono numerose,  La descrizione degli eventi ci viene così restituita dalla voce della protagonista del romanzo, che si sofferma in particolare, oltre che sull’ evidente stato di choc dei sopravvissuti,  sulle vittime animali, in particolare i cavalli di una scuderia,  vera strage degli innocenti della follia incomprensibile piovuta dal cielo :

Durante il bombardamento io ero in una vecchia cantina di via Venti Settembre. Le altre donne avevano molta paura e gridavano, chiamavano la Madonna. Io avevo molta paura. Due giorni dopo andai (…) a vedere il quartiere bombardato. Eravamo sul piazzale del Verano quando ci raggiunse l’odore dei cavalli morti: era un odore così acuto che dovemmo portare il fazzoletto al viso, e Tomaso mi prese sottobraccio. Una scuderia era stata colpita in pieno, ci dissero, quella dove stallavano i cavalli neri dei trasporti funebri. Chi era giunto per i soccorsi aveva udito i nitriti alti, disperati. Le voci degli uomini sepolti vivi nelle cantine non si udivano, invece. Durante l’opera di salvataggio sempre i cavalli avevano nitrito e quando, infine, tacquero, certo anche l’ultimo grido umano si era spento sotto le macerie.
Il quartiere di San Lorenzo era deserto. Sui fianchi delle case, negli squarci, pendevano materassi, indumenti, ritratti, e il silenzio pesava nei cortili soffocati di calcinacci e polvere. Dappertutto si sentiva quell’odore dolciastro e nauseabondo(…). Incontrammo un vecchio che portava in mano un secchio da riempire alla fontana. «Ero appena uscito in istrada» diceva «e la casa mi è crollata dietro.» 

Per quanto sconvolta, la città prova a reagire. Si attendono le notizie dalla radio, appare evidente che l’evento non può lasciare le cose immutate, che qualche radicale cambiamento si stia ormai preparando. Tutta la città, in ansia, è in attesa di notizie. Il fascismo, la “voce arrogante” del Duce, tuona e minaccia rappresaglia e vendetta contro i traditori; ma è un regime al suo epilogo. Pochissimi giorni dopo, la notte del 25 luglio, avverrà la caduta del Gran Consiglio del Fascismo e Mussolini sarà deposto dal proprio ruolo di capo del Governo. Gli antifascisti romani, molti dei quali ovviamente fino a quel momento non dichiarati come tali ma tra di loro in collegamento, considerano oramai imminente la liberazione della città. Dalle linee impazzite dei telefoni, o tramite il semplice passaparola, si insiste con il monito: “ Ascoltate la musica”, questa volta non soltanto riferito alle trasmissioni clandestine di Radio Londra, ma anche all’EIAR, l’emittente radiofonica ufficiale, da cui si attende con il fiato sospeso la notizia insperabile:

A quell’ora ogni sera, mentre chiudevo la finestra, vedevo le donne del casamento dirimpetto chiudere la finestra benché il caldo fosse soffocante; per un attimo ci guardavamo. Ci guardammo con maggiore intensità, quella sera. (…) accostando l’orecchio alla tela che nascondeva l’altoparlante, udimmo bussare cupamente come per dirci di avere fiducia, attendere.
Ma noi sapevamo che quella sera
il conforto della stazione proibita non ci sarebbe bastato più. (…) volontariamente tornammo a consegnarci alla voce arrogante che per anni avevamo ascoltata, zitti, aspettando[…] La nostra rivolta si esprimeva proprio in quel silenzio, in quel modo paziente di aspettare(…) Fu in quel momento che la voce nuova parlò: senza arroganza, dolorosa, grave. (…) io ero sola di fronte a questa voce saggia e modesta: e, sebbene contenta di non aver più paura, scoppiai a piangere, umiliata che la voce arrogante fosse stata proprio la voce del mio tempo e della mia età.

Le voci, nella realtà storica, sono due,  quelle del re  Vittorio Emanuele III  e  di Pietro Badoglio, , il  maresciallo d’Italia  succeduto a Mussolini alla guida del governo, che nella notte del 25 luglio ai microfoni dell’EIAR  informa i cittadini che «la guerra continua», e che l’italia avrebbe «tenuto fede alla parola data» agli alleati (erano in corso le trattative per il futuro armistizio), proclamando «lo stato d’assedio e l’ordine di «sparare a vista contro i dimostranti» per limitare i disordini , non esplicitando la brutale verità del fatto che da quel momento la lotta contro il nemico si sarebbe trasformata in conflitto civile. La popolazione romana, tuttavia, esulta per la caduta del fascismo ed anche anche se il peggio, per la capitale, come è noto, era di là da venire (dal rastrellamento tedesco al Portico d’Ottavia, all’attentato di via Rasella e al conseguente massacro delle Fosse Ardeatine), i cittadini tornano per breve tempo a respirare- e di nuovo, a parlare e ad incontrarsi come da tempo non era possibile:

E attorno a noi la gente passava lesta. Alcune persone si fermarono in crocchio a parlare, poi tutti si aggrupparono presso una bottega dalla quale veniva il segnale della radio. Io avevo paura quando la gente si affollava per ascoltare la radio; era sempre un segno funesto. In Abruzzo erano tutti dispersi nelle campagne, qui indugiavano nelle strade ancora chiare d’estate; erano nelle case, a tavola, alcuni lavoravano, o erano innamorati, sembravano indifferenti, difesi, eppure dovevano subito interrompere ogni altra cura e accorrere docili ad ascoltare ciò che diceva la radio. Non era più una miracolosa invenzione che trasmetteva la musica o i richiami per salvare le navi. Era una inesorabile potenza: il corso della nostra vita dipendeva in gran parte da ciò che diceva la radio. «Giungemmo appena in tempo per udire le ultime parole e poi restammo zitti, pallidi, mentre qualche soldato lanciava in aria il berretto rallegrandosi che fosse stato firmato l’armistizio.

Da quel momento inizia per la protagonista il coinvolgimento attivo  nella Resitenza., «il lungo giorno nel quale io non ho mai potuto riposare».[…] .Il romanzo di De Céspedes descrive la partecipazione della protagonista di un’azione partigiana realizzata dalle delle “staffette” femminili, paradossalmente insospettabili a causa degli stereotipi del patriarcato,  che trasportano sulle loro biciclette manifesti, giornali, armi nelle borse della verdura che andavano a procurarsi non senza fatica fuori dalle mura cittadine – e che subivano immancabilmente le perquisizioni dei soldati tedeschi.Dal racconto emerge  con fin troppa chiarezza la disparità di trattamento riservata alle donne, il cui contributo, prezioso ed indispensabile, viene spesso concepito dacomandanti partigiani come deprivato di qualsiasi connotazione di eroismo, e nelle intenzioni confinato il più possibile nell’ambito delle attività domestiche:

All’andata io avevo l’impressione di fare un gita in campagna; Affidate a quel sibilo, simile a un ronzìo lieve di officina, tutte pedalavamo insieme, senza guardarci. […]. Guardavo le nuche delle donne come quelle delle compagne di scuola, e avrei voluto accarezzarle con tenerezza: alcune di queste donne si logoravano nella paziente ricerca del cibo per i figli, nella ricerca del danaro necessario a mantenerli; lavoravano tutte, dacché gli uomini erano lontani, e alcune di esse erano andate a rubare nei vagoni merci colpiti dai bombardamenti, altre andavano a letto coi soldati. Poiché tutto si poteva chiedere alle donne, non c’era limite: Tullio [il comandante del gruppo a cui appartengono la protagonista e suo marito,ndr] chiedeva di preparare un letto, lavare la biancheria di una compagna che aveva bisogno di rifugiarsi, chiedeva di far cucina a tutte le ore, per tutte le persone che passavano, bisognava servirle tutte, per tutte trovare cibo e talvolta danaro(…)e poi domandava se sapessimo andare in bicicletta. Agli uomini chiedeva solamente di andare in bicicletta.

Nel romanzo viene dato ampio spazio proprio alla  coraggiosa resistenza della cittadinanza in undici mesi di occupazione che non risparmiano nulla alla popolazione civile in termini di arresti, torture, rappresaglie e deportazioni, ma che pure per contro determinano, da parte dei civili, quegli atti di coraggio ed abnegazione che James Hillman definisce il «sublime della guerra»:

In quel tempo la città era piena di persone che non avrebbero mai avuto la possibilità di divenire eroi: eppure, tra noi tutti, circolava una solidarietà così profonda che spesso raggiungeva l’eroismo, benché attraverso la paura. Perciò, forse, c’intendevamo facilmente: bastava un cenno, un’occhiata. Le case si aprivano ai tribolati, accogliendoli nella miseria che era in esse, come se finalmente ci fossimo tutti risolti a rivelarci. Sì, veramente fu un’epoca che rese migliori anche coloro che non avevano l’ambizione di divenire eroi e che pure sentivano l’obbligo di tener fede a se stessi.

A questo elogio della resistenza civile fa poi da contrappunto l’indimenticabile descrizione della liberazione di Roma,  il 5 giugno 1944 l’incredulità della popolazione  nel realizzare che i tedeschi avevano abbandonato la città ,seguita dall’esplosione di gioia  all’ingresso in città delle truppe alleate al comando del generale Clark:

Al mattino tutti uscirono guardinghi; ispezionarono cautelosi le strade e le piazze dove non si vedevano più autocarri né soldati coi fucili spianati. Lo squallore li sgomentò, dapprima: temevano che celasse un tranello, un estremo stratagemma: ma fu proprio la deserta malinconia delle strade umiliate e malconce a dar loro la certezza che la città era stata abbandonata. Allora le case si svuotarono in un baleno, la gente correva via come acqua, dilagava nelle strade. Le vie tornarono a echeggiare passi, richiami. Tutti parlavano a voce alta, si chiamavano di sotto le finestre, le ragazze correvano in bicicletta e i loro capelli ariosi si sollevavano nel vento.[…] Affacciata alla terrazza mi stordivo nell’aria libera della bella estate e nelle grida festose che scoppiavano qua e là, come fuochi d’artificio. Dalla finestra sottostante udivo salire voci che disapprovavano un così clamoroso entusiasmo: invece a me pareva facile comprendere che quello era un modo di applaudire noi stessi, il nostro coraggio, la nostra pazienza, e così cancellare i duri giorni trascorsi, applaudire, gridare, urlare, provare che il lungo e tetro giorno era veramente finito. Bisognava essere privi di pietà per non comprendere che tanta vita repressa, costretta, imbavagliata, doveva pur esplodere in qualche modo.

Tuttavia la liberazione della città coincide, per amaro paradosso, anche con la progressiva restaurazione del maschilismo patriarcale. Per la protagonista  sarà  un dolore notare la freddezza e l’indifferenza di coloro che fino a pochi giorni prima avevano messo la propria vita nelle mani di lei. Con il ritorno dell’eroe (il marito della protagonista, anche lui partigiano), la sua figura, la sua partecipazione alla resistenza vengono eclissate, al punto da spingerla quasi a dubitare di sé stessa e della realtà di quanto era avvenuto,  vittima di una forma antesignana di gaslighting autoindotto che lascia nel suo animo un disperato senso di frustrazione ed amarezza:

Anche con i compagni, ormai, non trovavamo più nulla da dirci: l’amicizia che fingevamo era fittizia: in realtà essi erano tornati ad essere gli amici di Francesco. Infatti, quando conducevano con loro un nuovo amico o compagno me lo presentavano dicendo brevemente «la signora Minelli» e già, trascinandolo pel braccio mentre costui avrebbe voluto indugiarsi in qualche frase di convenienza, lo presentavano a Francesco con una voce del tutto diversa. Poi illustravano le ormai famose avventure di mio marito. Io ero contenta che non accennassero alle modeste missioni che io avevo compiuto: poiché, per me, esse possedevano un valore assolutamente personale e mi infastidiva che altri ne disponesse liberamente. Tuttavia mi veniva fatto di sospettare che le bombe che avevo portato io fossero false: se solamente quelle che gli uomini avevano portato rappresentavano un pericolo; dubitavo del contenuto dei manifesti; ricordavo che i messaggi erano per lo più frasi insulse, simili a quelle che si trovano nelle grammatiche di una lingua straniera. Non significavano nulla, forse; incominciavo a credere che fossero stati preparati al solo scopo di beffarmi. Ma, se anche fossero stati falsi, ciò non avrebbe avuto importanza; io li avevo portati con la stessa paura, avevo ugualmente accettato di correre quel rischio. 

«E ora tutti eravamo qui, tutti ugualmente salvi, tutti scampati»; ma con i liberatori che tornavano a riscoprirsi maschi  e che per paradosso ripristinavano senza alcuna remora l’ordine costituito dei rapporti di forza, che li riconfermava – per citare Orwell – sempre e comunque più uguali degli altri. All’autrice non resta dunque che prendere amaramente atto di come per l’Italia , e soprattutto per le donne, la Liberazione sia stata in fondo una promessa tradita, che non ha avuto comunque il potere di scalfirne l’individualità peculiare che le rende irriducibilmente altre rispetto alla causa vincitrice del mondo maschile:

(…)Con gli anni mi è sembrato di scoprire quanta illusione è nel termine stesso libertà.[…]Ho visto l’Italia perdere la propria indipendenza nel 1945 in nome di una libertà di cui io mi domando il senso oggi (…)Io mi domando anche qual senso abbia l’amore e se parlarne non sia un’ipocrisia o una prova di debolezza. Posso dire che in una donna anche dalle vicissitudini più deludenti la forza dell’amore emerge sempre come da una fonte inestinguibile.


RISORSE E NOTE A MARGINE

– Le enfasi grafiche nelle citazioni (corsivi e grassetti) sono mie;

– E’ stata qui effettuata la scelta di riportare citazioni esclusivamente relative alle vicende storiche comprese tra il bombardamento della città e la sua liberazione non alla trama del romanzo, un capolavoro assoluto del nostro Novecento, per lasciare intatto il piacere della lettura dell’opera- che davvero, davvero meriterebbe di essere letta da ogni donna e di essere inclusa di diritto nel canone delle opere imprescindibili…..ma questa è ben altra questione che tuttavia allontanerebbe troppo (?) dall’argomento di questo post;

– Al romanzo di Alba de Céspedes ed in particolare alla sua partecipazione e posizione sulla Resistenza sono dedicati in rete parecchi contributi; ricordiamo qui la recensione  a firma di Giosuè David su La Falla  e l’invito alla lettura del romanzo pubblicato da Alessia Martoni su Critica letteraria 

-Il contributo di Rai Cultura all’approfondimento della figura e dell’opera dell’autrice;

– L’articolo a firma di Annalisa Camilli, pubblicato su Internazionale e dedicato al ruolo rimosso  delle donne nella Resistenza, che cita peraltro l’opera della storica Simona Lunadei e la testimonianza di Carla Capponi;

-La rilevanza del ruolo delle donne della Resistenza romana, viene giustamente esplicitata e sottolineata  nella sala  a loro dedicata del Museo della Liberazione di Roma, un tempo sede già sede delle famigerate celle di detenzione  di via Tasso, e vi si sottolinea come sia stato proprio grazie a loro che l’occupazione tedesca  non sia riuscita a realizzare il piano di sottomettere e piegare la città, anche  e soprattutto moralmente.

Antifascismo: Disposizione XII e legge Scelba. Note a margine del 25 Aprile/3

costituzione-gazzetta   

Nellintervista rilasciata a Daniele Nalbone  e pubblicata sulle pagine di  MicroMega il 24 aprile 2021, – sul numero dedicato dalla rivista alla ricorrenza dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo,  Paolo Berizzi, giornalista e scrittore, invitato ad un’analisi sulla situazione politica italiana osserva amaramente, tra l’altro, come  « l’antifascismo non [sia] un tema nell’agenda del Paese» a nessun livello, dalla magistratura, al legislatore, alle forze politiche. Potrebbe, detta così, sembrare una buona notizia; delinea l’immagine di un Paese che abbia fatto definitivamente i conti con il periodo più drammatico e criminale della propria storia, e che abbia relegato qualsiasi ulteriore compromissione con il passato- e il presente- delle realtà politiche di estrema destra, e dei loro crimini passati e presenti, nella sfera dell’impensabile.


paolo_berizzi_Sembra una favola bella
; naturalmente tutti sappiamo che la realtà è ben diversa e che  Berizzi vive sotto scorta da tempo  per  le continue minacce  di morte ricevute dai gruppi neofascisti e neonazisti di cui  il giornalista  da anni indaga- e denuncia- le dinamiche di formazione, reclutamento e propaganda , senza misconoscere in questo le gravi responsabilità dell‘informazione che « ormai da anni, salvo poche eccezioni, si è unita al coro di chi ha fatto finta di niente, sottovalutato, minimizzato, banalizzato il problema del ritorno delle forze fasciste e del messaggio fascista in Italia».  Il che implica, dunque, che dall’orizzonte del dibattito mediatico e culturale sia scomparso anche l’orizzonte della Costituzione italiana, oggi sterilizzata dalla retorica  celebrativa  ma scritta da coloro che il fascismo storico lo avevano in tutti i modi combattuto e avversato e ispirata dalla ferma volontà di impedirne il ritorno sotto qualsiasi forma. Nella dodicesima delle  “Disposizioni transitorie e finali della Repubblica italiana”- come nessuno ignora, si ribadisce che 

È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. In deroga all’articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dalla entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista.

La suddetta disposizione trovava il proprio perfezionamento giuridico con l’emanazione di un apposito provvedimento attuativo, la  legge  n.645 del 20 giugno 1952,  a firma dell’allora ministro dell’Interno  Mario Scelba, su incarico del Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, consapevole dei rischi di destabilizzazione che correva la democrazia di nuovo conio e  della lacerazione profonda che ancora attraversava il Paese. Così l’articolo 1 della suddetta legge  riconduce alla riorganizzazione del partito fascista  tutti i casi in cui «una associazione o un movimento persegue finalita’ antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politico o propugnando la soppressione delle liberta’ garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attivita’ alla esaltazione di esponenti, principii, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista». 

Ancora più esplicito appare l’articolo 4, in cui viene dichiarata reato anche la semplice apologia di fascismo, vale a dire la pubblica manifestazione di esaltazione o consenso relativa ad «esponenti, principii, fatti o metodi del fascismo oppure  [al]le finalita’ antidemocratiche proprie del partito fascista», ritenendo come aggravante il fatto che tale esaltazione avvenga «col mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione o di propaganda».
La condanna importa la privazione dei diritti indicati nell’art.28, comma secondo, n. 1, del Codice penale per un periodo di cinque anni.

denicola_evidenza_2020In realtà, l’applicazione della suddetta legge si è sempre scontrata con accese polemiche, alimentate soprattutto dagli esponenti del Movimento Sociale Italiano, i cui esponenti venivano- evidentemente- spesso accusati del reato di apologia di fascismo. Si è addirittura giunti, e ripetutamente, ad invocare il principio di incostituzionalità,   indicando il  contrasto con l’art.21 comma 1 della Costituzione, che garantisce la libera manifestazione  di  pensiero e di parola. A dichiarare l’infondatezza della pretesa incostituzionalità della legge  sarà la sentenza n.1 del 16 gennaio 1957la prima emessa dalla Corte Costituzionale presieduta da Enrico De Nicola, già primo presidente della Repubblica, che in relazione ai processi di Torino, Roma e Perugia aperti proprio ai sensi della legge Scelba contro militanti che « salutavano romanamente»  dichiarerà che  «La riprova che l’apologia, in realtà, consista in una istigazione indiretta si desume dall’art. 414 del Codice penale (che non trovasi modificato nel progetto preliminare per la riforma del detto codice, redatto dall’ultima Commissione ministeriale), articolo il quale – sotto l’intestazione “Istigazione a delinquere” – nell’ultimo comma prevede precisamente l’apologia di uno o più delitti. Appunto per ciò la dottrina ha ritenuto che il reato di apologia costituisca una forma di istigazione indiretta». La stessa posizione sarà ribadita in un’ulteriore sentenza della Corte (la n.74  del  25 novembre 1958) , presieduta dall’ assai meno specchiato Gaetano Azzaritiantisemita della prima ora e già presidente della famigerata Commissione sulla razza,  in cui, al fine di rimuovere ogni possibile equivoco interpretativo, si legge :

Non crede questo Supremo Collegio che il criterio interpretativo di così ampia portata adottato dalla Corte costituzionale sia suscettibile di modificazioni e che esso non conservi la sua validità anche quando non trattasi di atti che integrino vera e propria apologia del fascismo ma si esauriscono in manifestazioni come il canto degli inni fascisti, poiché si ha ragione di ritenere anche che queste manifestazioni di carattere apologetico debbano essere sostenute, per ciò che concerne il rapporto di causalità fisica e psichica, dai due elementi della idoneità ed efficacia dei mezzi rispetto al pericolo della ricostituzione del partito fascista e che, quando questi requisiti sussistono, l’ipotesi di cui all’art. 5 legge citata è costituzionalmente legittima.

Il pronunciamento della Corte costituzionale sulla (cosiddetta) legge Scelba e sul carattere di reato penale della tentata ricostituzione del partito fascista come dell’apologia di fascismo appare dunque incontrovertibile; l’altezza dell’istituzione giuridica ne sacralizza il principio. Ovviamente- ed evidentemente- tutto questo non è bastato, nei settant’anni successivi, a sradicare il fascismo- ed il suo nostalgico e inconfessato rimpianto- dal  comune sentire, complice la perenne indifferenza, da parte del decisore politici, di quel  disagio sociale che con proporzioni e connotazioni diverse costituisce la grande ombra della nostra democrazia e che non ha forse mai ricevuto le risposte che avrebbe meritato, divenendo il terreno di coltura ideale per la sopravvivenza  e la proliferazione di gruppi di chiara ispirazione fascista,  Ma siccome non è previsto dal nostro ordinamento giuridico che i principi costituzionali possano essere invalidati dalla loro  mancata applicazione in nome di connivenze e ammiccamenti più o meno inconfessati, l’apologia di fascismo resta un reato penale fino a quando sarà in vigore la Costituzione repubblicana, dichiaratamente ispirata appunto, non lo dimentichiamo mai, ai – e dai-  princìpi dell’antifascimo.

Buon 25 Aprile a tutti.

 

NOTE A MARGINE

Il contributo di David Matoussa su Gli stati generali, che affronta il discorso sulla rimozione collettiva e sui ” conti sospesi” con il fascismo anche citando i libro dello storico Francesco Filippi, volti appunto ad indagare le ragioni del malcelato rimpianto di una parte (purtroppo considerevole) dell’opinione pubblica per il passato fascista (nella sua dimensione mitizzata). A chi giudichi inconcepibile l’assegnazione della presidenza della Corte costituzionale ad una figura come Azzariti , i libri di Filippi potranno dare un’esauriente sebbene indigesta risposta ;

-A chiunque voglia avere una percezione più esatta della gravità e della diffusione dell’ideologia fascista in Italia e delle strategie di coinvolgimento di giovani e giovanissimi, corre(rebbe) l’obbligo della lettura del volume di Berizzi, L’educazione di un fascista, che non sapremmo definire altrimenti se non dolorosamente illuminante . All’autore va, naturalmente, la nostra solidarietà più profonda, unita all’amarezza per il paradossale rovesciamento dei ruoli in cui è la vittima di attacchi e minacce ad essere privata della libertà :

Eppure, sono stato messo sotto scorta per le minacce nazifasciste. Fosse accaduto negli anni Settanta sarebbe stato fisiologico, ma nel 2021 è preoccupante. Ed è un paradosso: chi denuncia i fascisti finisce sotto scorta, mentre loro sono liberi.

La persuasione e la retorica. Nota a margine del 25 Aprile /2(020)

Sembra destino- o forse un’attenzione o un’insistenza personali, se preferite- che le riflessioni di questo blog a proposito del 25 Aprile e dintorni debbano vertere sul linguaggio. Sarà forse perché l’anniversario della Liberazione costituisce la più importante delle celebrazioni civili, che la retorica del consenso si appropria, spesso indebitamente e illecitamente, delle parole che gravitano attorno a questa data storica, contando sull’enorme risonanza emotiva che spesso trascende la (o prescinde dalla) conoscenza degli eventi. «Liberazione» è una parola che oggi più che mai ci sentiamo cucita addosso, soprattutto perché da circa due mesi, da quando cioè è stato ufficialmente dichiarato lo stato d’emergenza del Paese con conseguente blocco delle attività produttive e di gran parte delle libertà individuali, siamo stati esposti ad una continua esortazione alla necessità di «resistere» e di «fare la nostra parte» nella «guerra in atto» contro il «nemico invisibile», recuperando dunque tutta la retorica della guerra per la quale i capi di stato e di governo continuano a rivelare , come vuole James Hillman, «un terribile amore». E siccome l’antidoto migliore contro la retorica credo resti la memoria degli eventi, mi scuserete se colgo l’occasione per richiamare qui i fatti di quei giorni, certo noti a voi tutti, per restituire il contesto, e dunque pieno senso e pregnanza alle parole che li ricordano, liberandole almeno in parte dall’abuso.

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CAPELLI DI CENERE. ANNA FRANK E ETTY HILLESUM

 

 

I tuoi capelli di cenere, Sulamith: con il verso più terribile della Todesfuge di Paul Celan  ricordiamo tutte le vittime dell’Olocausto rendendo omaggio ad Anna Frank e Etty Hillesum, entrambe ebree olandesi vittime della persecuzione nazista.per la testimonianza che ci hanno lasciato di un’umanità conservata intatta, non scalfita da lutti, dolori e privazioni orrende,  che ancora vive nelle pagine dei loro diari e delle lettere, impossibili da leggere senza profonda emozione.


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