Personalmente io non ritengo l’istituzione del Giorno della memoria una grande idea; e prima che mi si accusi di nefando negazionismo, vado brevemente ad illustrare le mie ragioni.
L’esperienza ci dimostra che l’istituzionalizzazione di una ricorrenza non rallenta lo scorrere del tempo e la distanza sempre maggiore che da quello ci separa; soprattutto, poi, per un popolo come il nostro, già di suo pigro e privo di qualsiasi senso di appartenenza collettiva, e che anzi verso ogni ricorrenza civile o religiosa mostra un senso di finta compunzione da cui traspare una malcelata insofferenza. Ne è un esempio il 25 Aprile, -di cui pure quest’anno, ricorre il settantesimo anniversario come per la liberazione di Auschwitz: credo sia innegabile che per la maggioranza degli italiani questa data sia essenzialmente un giorno rosso sul calendario che consente ai più fortunati una gita di primavera fuori porta (o un ponte da trascorrere fuori, se capita di venerdì o lunedì). O, esempio forse più calzante, la giornata del 2 Novembre, commemorazione dei defunti, in cui mezza’Italia si riversa nei cimiteri per obbedienza alla convenzione sociale, ma senza neppure un pensiero a ciò che si sta facendo (fatte salve come sempre le debite eccezioni), per essere liberi di non pensarci praticamente più per i successivi 364 giorni.
La memoria storica e la memoria collettiva, il senso di identità e di appartenenza, si costruiscono, o meglio si coltivano, non si impongono. E richiedono tempo e dedizione continua per metter radici salde nelle coscienze. La Shoah è ed è destinata a rimanere una ferita aperta nelle coscienze di tutti noi, incancellabile nell’inconscio collettivo della cultura occidentale, un terribile sottotesto permanente nella nostra musica, nell’arte, nella cultura, nelle tradizioni familiari dei testimoni e dei sopravvissuti, nei musei che raccolgono testimonianze, in tutte le forme in cui si esprime la nostra arte di sottrarre gli eventi al contingente e proiettarli fuori dal tempo.
Dal 27 Gennaio 1945, che è poi solo l’inizio della fine dell’inferno (almeno dell’inferno fisico), sono passati settant’anni, eppure l’Olocausto è per le coscienze assai più attuale di molte e altrettanto orribili tragedie contemporanee: perché le migliaia di testimonianze, saggi, scritti, documenti, muovono ogni corda della pietà e dello strazio ma non forniscono risposte. Comprendere è impossibile, conoscere è necessario, sostiene Primo Levi. E’ necessario ma non sufficiente; lo sforzo di comprensione del come sia potuto accadere non può mai essere eluso, anzi deve essere affrontato anche a fronte della nostra debolezza e incapacità, perché è la sola giusta causa che ci rende impotenti ma non conniventi con l’orrore.