Gabbiani/1 . Svevo, Čechov……

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I gabbiani, i  signori del mare che vivono «balenando in burrasca», costituiscono un simbolo ricorrente nella letteratura e nella prosa europea del Novecento, come messaggeri della tempesta pronta ad abbattersi  sulle storie e sulla Storia, sul destino dei personaggi  come su quello dei loro autori.

«”Una vita”, che il Crémieux considera quale il parallelo italiano dell’Education sentimentale dSvevoel Flaubert, fu pubblicato nel 1893, presso l’editore Vram di Trieste.[…]. Eugenio Montale («L’Esame» del Novembre–Dicembre 1925) ne diceva: «È un grosso romanzo dominato e percorso da parecchi temi fondamentali dei quali nessuno sembra avere il predominio[..]Se si aggiunge che il protagonista, Alfonso Nitti, è dominato da cose più grandi di lui che lo traggono alla rovina, apparirà chiaro che “Una vita” è prima di tutto un libro coraggioso».

Così, nel suo  Profilo autobiografico,  Svevo narra con la consueta ironia le vicende editoriali e la ricezione del suo primo romanzo, Una vita, che l’autore dovette pubblicare a proprie spese presso Vram a Trieste dopo il rifiuto di Treves, qui stigmatizzato al vetriolo a seguito della sua consacrazione critica a livello europeo grazie a Cremieux e Montale:

Certo, per l’autore la relazione di Alfonso con Annetta, la ricca figliuola del banchiere Maller, è la parte importante del romanzo che dapprima portava il titolo “Un inetto, titolo che poi fu cambiato in seguito al rifiuto di Emilio Treves di pubblicare un romanzo «con un titolo simile». Dimostrazione del grande senno di un editore tanto importante!

 In realtà qui Svevo, oltre ad essersi tolto la soddisfazione di una vendetta gustata freddissima (ben trentasei anni dopo la pubblicazione del romanzo), ce ne fornisce anche una chiave interpretativa, ribadendo come al centro del romanzo ci sia il rapporto tra Alfonso e Annetta Maller, la  figlia del banchiere  presso cui egli lavora come semplice  impiegatoannetta. Alfonso, provinciale di belle speranze venuto in città, è inizialmente ben accolto dai colleghi e dallo stesso Maller, che come da tradizione per tutti i nuovi impiegati, lo invita a casa sua, defilandosi però snobisticamente al suo arrivo con il pretesto di affari urgenti. Alfonso si sente offeso per tanta degnazione e ancora di più per  l’assoluta indifferenza dimostrata da Annetta a cui viene lasciato l’ingrato compito di fare gli onori di casa allo sconosciuto; tuttavia egli si dimostra incapace di reagire, impacciato e goffo, aumentando così il proprio disagio. L’imbarazzo è stemperato dalle premure della signorina Francesca, antica amica della madre di Alfonso  nonché amante di Maller, e dall’improvviso arrivo del cugino Macario, giovane vitellone annoiato e blasé che prende apertamente in giro la fanciulla per le sue scarse doti canore, provocandone la stizza e il disappunto. Alfonso, che pure riceve una prima impressione della fanciulla niente affatto gradevole, intravede però immediatamente la possibilità di una rapida scalata all’interno della banca attraverso una liaison e magari un fidanzamento con lei. Curiosamente, viene incoraggiato in questo dallo stesso Macario, che -forse per la coincidenza degli opposti o forse per un malcelato senso di superiorità-  lo prende in simpatia, invitandolo peraltro a diverse gite in barca sul suo cutter nel golfo di Trieste, durante le quali ama atteggiarsi a maestro di vita. Una mattina particolarmente ventosa, quando Alfonso, pallido, non riesce a nascondere lo spavento e il malessere aggrappandosi nervosamente alla barca con entrambe le mani, Macario, per distrarlo, lo invita ad osservare il volo dei gabbiani:

GabbianiSi udivano i piccoli gridi dei gabbiani. Macario per distrarlo volle che Alfonso osservasse il volo di quegli uccelli, così calmo e regolare come la salita su una via costruita, e quelle cadute rapide come di oggetti di piombo. Si vedevano solitarii, ognuno volando per proprio conto, le grandi ali bianche tese, il corpicciuolo sproporzionatamente piccolo coperto da piume leggiere. — Fatti proprio per pescare e per mangiare, — filosofeggiò Macario. — Quanto poco cervello occorre per pigliare pesce! Il corpo è piccolo. Che cosa sarà la testa e che cosa sarà poi il cervello? Quantità da negligersi! Quello ch’è la sventura del pesce che finisce in bocca del gabbiano sono quelle ali, quegli occhi, e lo stomaco, l’appetito formidabile per soddisfare il quale non è nulla quella caduta così dall’alto. Ma il cervello! Che cosa ci ha da fare il cervello col pigliar pesci? E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile! Chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più. Chi non sa per natura piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà giammai e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare. Si muore precisamente nello stato in cui si nasce, le mani organi per afferrare o anche inabili a tenere. Alfonso fu impressionato da questo discorso. Si sentiva molto misero nell’agitazione che lo aveva colto per cosa di sì piccola importanza. — Ed io ho le ali? — chiese abbozzando un sorriso. — Per fare dei voli poetici sì! — rispose Macario, e arrotondò la mano quantunque nella sua frase non ci fosse alcun sottinteso che abbisognasse di quel cenno per venir compreso.

Il gabbiano, dunque, è qui simbolo dell’azione pura, contrapposta alla sovrabbondanza infestante  del pensiero che paralizza e rende inabili alla vita. L’unica scelta possibile  è tra preda e cacciatore, oppressore ed oppresso: si mangia o si viene mangiati. Nella visione darwiniana di Macario -condivisa  in buona parte dallo stesso autore-, la vita è celebrata e analizzata nella sua essenza puramente istintuale, le sovrastrutture culturali ridotte ad un ingombrante impedimento. In Alfonso, la rivelazione di Macario agisce come un veleno sottile che gli  conferma qualcosa che egli già sospetta da tempo, ovvero la propria impossibilità di adattamento alle regole sociali dell’esistenza: egli, come il Totò Merùmeni di Gozzano, non può sentire, è cioè incapace di qualsiasi esperienza di autentica condivisione con l’altro. Pure, quando con il pretesto della composizione di un romanzo sentimentale a quattro mani, riuscirà ad insinuarsi stabilmente in casa Maller fingendo (anche a sé stesso) lo slancio di un sentimento che è incapace di provare e riuscendo così nell’impresa di sedurre la giovane, Alfonso, subito sopraffatto dallo scontento e dal disgusto,  si ricorderà della metafora:

Tempo prima Macario gli aveva detto che lo riteneva incapace di lottare e di afferrare la preda, ed egli di questo rimprovero s’era gloriato come di una lode. Ora egli aveva provato che Macario s’era ingannato sul suo conto. [..] Era stata una felicità strana, una soddisfazione continuatadel suo orgoglio a scoprire qualche debolezza in altrui di cui egli andava immune, a vedere gli altri tutti in lotta per il denaro e per gli onori e lui rimanere tranquillo,soddisfatto al sentirsi nascere nel cervello la genialità, nel cuore un affetto più gentile di quello che di solito gli umani sentono. Comprendeva e compativa le debolezze altrui e tanto più superbo andava della propria superiorità. […]. Ora invece questi lottatori ch’egli disprezzava lo avevano attirato nel loro mezzo e senza resistenza egli aveva avuto i loro stessi desiderî, adottato le loro armi. […]. Egli era entrato nella lotta perché non gli era stato mai concesso di uscirne del tutto.

La vigliaccheria, unita al timore di rinunciare alla pienezza di una vita che pure si ostina a sfuggirgli, fa sì che Alfonso si sottragga alla necessità di affrontare Maller per restituire ad Annetta l’onore perduto; benché Francesca lo supplichi di rinunciare alla partenza, egli immediatamente chiede licenza per tornare al proprio paese ed assistere la madre in punto di morte. Ritornando a Trieste, gli viene immediatamente annunciata la notizia del fidanzamento di Annetta con Macario e la sua declassazione da impiegato corrispondente a contabile. Alfonso, peno d’ira, affronta Maller, alludendo a quel cambiamento improvviso di mansioni come manifestazione della volontà del banchiere di punirlo  per i suoi trascorsi con la figlia; temendo poi di essere considerato un ricattatore, scrive ad Annetta per chiederle un appuntamento e chiarire le proprie intenzioni, ma si ritrova invece davanti Federico Maller, che lo sfida a duello. La paura  di terminare i propri giorni nel ridicolo, non disgiunta dal meschino sentimento di provocare in Annetta almeno il senso di colpa per la propria morte, spingono Alfonso a scegliere il suicidio; la decisione è presa paradossalmente  con calma, lucidità e controllo, che egli ha ora acquistato sulla propria esistenza soltanto per mettervi fine:

Doveva battersi con Federico Maller in una lotta impari nella quale il suo avversario aveva tutti i vantaggi: l’odio e l’abilità. Che cosa poteva sperare? Gli rimaneva soltanto una via per isfuggire a quella lotta in cui avrebbe fatto una parte miserabile e ridicola, il suicidio. Il suicidio gli avrebbe forse ridato l’affetto di Annetta. Come in quell’istante non l’aveva amata giammai. Non si trattava più d’interesse né di sensi. Quanto più egli l’aveva vista allontanarsi da lui tanto più l’aveva amata; ora che definitivamente perdeva ogni speranza di riconquistare quel sorriso, quell’affettuosa parola, la vita gli sembrava incolore, nulla. […]La liberazione! Si rammentava che fino a poco prima aveva pensato altrimenti e volle calmarsi, vedere se quel sentimento giocondo che macario.jpglo trascinava alla morte non fosse un prodotto della febbre da cui poteva essere posseduto. No! Egli ragionava calmo! Schierava dinanzi alla mente tutti gli argomenti contro al suicidio, da quelli morali dei predicatori a quelli dei filosofi più moderni; lo facevano sorridere! Non erano argomenti ma desiderî, il desiderio di vivere. Egli invece si sentiva incapace alla vita. Qualche cosa, che di spesso aveva inutilmente cercato di comprendere, gliela rendeva dolorosa, insopportabile. Non sapeva amare e non godere; nelle migliori circostanze aveva sofferto più che altri nelle più dolorose. L’abbandonava senza rimpianto. Era la via per divenire superiore ai sospetti e agli odii. Quella era la rinunzia ch’egli aveva sognata. Bisognava distruggere quell’organismo che non conosceva la pace; vivo avrebbe continuato a trascinarlo nella lotta perché era fatto a quello scopo. 


Cechov

 L’incapacità di vivere, la disperazione per un’esistenza autentica da cui ci si sente irrimediabilmente -e ingiustamente- esclusi è anche il tema di fondo de  Il gabbiano di Anton Čechov, che qui però simboleggia la vitalità pura e innocente soggiogata e distrutta, per cieca insensatezza della crudeltà  umana, che toglie senza rimorso, metaforicamente o letteralmente, la vita. In questa, che qualcuno ha definito la più oscura e misteriosa delle sue opere, l’identificazione con  il personaggio della protagonista  Nina Zarečnaja è immediata  (parlando dell’opera su Minima&moralia, Fausto Malcovati avverte: «Čajka, Il gabbiano, in russo, attenzione, è sostantivo femminile»): Nina è vittima innocente, schiacciata tra l’inetto Konstantin Gavrilovič Treplev, che l’ama di un amore tanto impotente quanto soffocante, e il cinico  Boris Alekseevič Trigorin,  scrittore di successo che però sembra mal sopportare la propria stessa fama, come immeritata e opprimente. Nina è idealmente sorella minore di Emma Bovary, ma con la variante dell’aspirazione artistica: il suo sogno, infatti, è diventare attrice come la frivola Irina Nikolaevna Arkadina, madre di Treplev e compagna di Trigorin, e di potersi quindi finalmente allontanare dalla riva del lago dove suo padre, novello Barbablù, e la perfida matrigna la tengono prigioniera come la principessa di una fiaba,come dimostra infatti anche il suo precipitoso rientro a casa,  dopo aver partecipato in qualità di protagonista al notturno teatrale che  Treplev ha scritto per lei:

NINA Mio padre e sua moglie non vogliono che io venga qui.Dicono che qui c’è la bohéme… Hanno paura che mi metta a fare l’attrice…Ma io mi sento attratta da questo lago, come un gabbiano…

In questa battuta, dunque, Nina definisce sé stessa identificandosi con il gNinaabbiano, che vola alto e leggero ma si sente attratto dal lago, ignaro delle insidie che esso nasconde; ad essere attratto dal lago è anche Trigorin, la cui attività preferita è sedervisi in riva a pescare. L’affermazione può sembrare del tutto irrilevante, ma se riletta alla luce del colloquio che di lì a poco avverrà tra lui  e Nina, si carica di un significato sinistro; soprattutto, la parte finale della battuta qui sopra riportata (« Nel mio cuore non ci sei che tu» – rivolta a Treplev, ma subito seguita da un inquieto guardarsi attorno) lascia presagire la sua imminente caduta. Anche Nina, infatti, è soggiogata da Trigorin, e dalla sua allure di scrittore famoso, il quale dal canto suo,(trasparente alter ego dell’autore) appare sempre immerso nei suoi appunti, nel tentativo di fissare  la mutevolezza del reale sulla carta, come un entomologo con la propia collezione di insetti infilzati:

NINA Buon giorno, Boris Alekseevič!
TRIGORIN Buon giorno a lei. Circostanze improvvise sembra ci costringano a partire oggi.  E’ poco probabile che noi due ci si riveda. Peccato. Non mi capita spesso di incontrare ragazze giovani, voglio dire giovani e interessanti, e ho già dimenticato, non riesco addirittura immaginare come ci si senta a 18-19 anni,ed è per questo che nei miei racconti le ragazze di solito mi riescono poco spontanee. Ecco, mi piacerebbe, anche solo per un’ora, mettermi nei suoi panni, capire cosa pensa una creaturina come lei.
NINA E io invece vorrei mettermi nei suoi panni.
TRIGORIN E perché?
Nina e TrigorinNINA Per sapere come ci si sente a essere uno scrittore famoso, pieno di talento. Che sensazione dà la celebrità? Cosa prova a sentirsi famoso?
[…]
NINA La sua vita è meravigliosa!
TRIGORIN Cosa c’è poi di tanto meraviglioso? (guarda l’orologio)Devo andare a scrivere. Scusi, non ho tempo…(ride) Lei ha,come si dice, messo il dito nella piaga, e divento subito inquieto,irritabile. E va bene, parliamo. Parliamo della mia vita meravigliosa, luminosa… Già, ma da dove cominciamo? (dopo un attimo diriflessione) Ogni tanto abbiamo delle idee che ci ossessionano,c’è per esempio chi pensa giorno e notte alla luna; anch’io ho la mia luna. Giorno e notte mi tormenta lo stesso implacabile pensiero: devo scrivere, devo scrivere, devo… Appena finisco un racconto, non so perché, devo mettermi a scriverne un altro, e poi un terzo,e dopo il terzo un quarto… Non posso fermarmi, non posso fare altro. Che c’è di meraviglioso, di luminoso, le domando? E’ una vita da cani, altro che! Adesso sono qui con lei, ma mi agito perchè ogni minuto mi torna in mente che mi aspetta un racconto da finire.[…]. E sempre così, sempre così, sono io stesso che non so darmi pace, mi accorgo che divoro la mia vita, che per dare quel po’ di miele intorno a me, porto via il polline ai miei fiori più belli, addirittura li strappo e ne calpesto le radici.

Il colloquio tra i due, infatti, si chiuderà con la dichiarazione di Trigorin di aver appena trovato un soggetto per un nuovo racconto:

TRIGORIN (…) Mi è venuto in mente un soggetto. (nasconde il taccuino) Un soggetto per un racconto breve: sulla riva di un lago vive fin dall’infanzia una ragazza, come lei: ama il lago, come un gabbiano, è libera e felice come un gabbiano.
Poi per caso capita lì un uomo, la vede e, per ammazzare il tempo, le distrugge la vita, proprio come a questo gabbiano.

Subito prima, infatti, Trigorin aveva visto a terra un gabbiano morto, e Nina gli aveva spiegato che ad ucciderlo era stato Treplev, sconvolto per l’insuccesso del suo lavoro teatrale e per la nuova freddezza che gli sembrava di notare in lei. IlIrina Nikolaevna dramma messo in scena da Treplev  nel corso del primo atto, non era stato compreso né apprezzato dall’esiguo  pubblico familiare, abituato a forme decisamente più tradizionali (anticipando e profetizzando, in un vertiginoso avvitamento borgesiano tra realtà e finzione, lo stesso clamoroso insuccesso della prima de  Il gabbiano al teatro Alexandrinskij di Pietroburgo). La stroncatura più feroce arriva proprio da Irina Arkadina, che non comprende l’animo, il talento e il doloroso amore di Treplev, che soffre nel vederla compagna di Trigorin, lo stesso che sta per sottrargli per sempre l’amore di Nina. Sconvolto, dunque, e convinto che il motivo maggiore della freddezza della giovane sia dovuto all’insuccesso del suo spettacolo, Treplev le porta il macabro trofeo, che simbolicamente sostituisce l’uccisione della fanciulla stessa e che preconizza dichiaratamente il futuro suicidio dell’ “assassino”:

TREPLEV (entra senza cappello, con il fucile e un gabbiano ucciso) Sei sola?
NINA Sì. (Treplev pone ai suoi piedi il gabbiano)
NINA Che cosa vuol dire?
TREPLEV Oggi per vigliaccheria ho ucciso questo gabbiano.
Lo depongo ai tuoi piedi.
NINA Cosa ti succede? (raccoglie il gabbiano e lo guarda)
TREPLEV (dopo una pausa) Presto nello stesso modo io mi ucciderò.
NINA Non ti riconosco.
Trigorin.jpgTREPLEV Sono io che da molto tempo ho smesso di riconoscere te. Tu sei cambiata nei miei confronti, il tuo sguardo è freddo, la mia presenza ti imbarazza.
NINA Negli ultimi tempi sei diventato irritabile, ti esprimi in modo incomprensibile, usi strani simboli. Anche questo gabbiano evidentemente è un simbolo, ma, scusa, io non lo capisco… (appoggia il gabbiano sulla panca) Sono troppo semplice per capirti.

Nina, infatti, non può immaginare che Kostja (com’è chiamato familiarmente Konstantin Treplev) di lì a poco tenterà il suicidio dopo aver sfidato Trigorin a duello. Il terzo atto, infatti, lo vede comparire con una fasciatura sulla testa, in un ultimo drammatico colloquio con sua madre che sta per ritornare in città assieme a Trigorin e che, divorata dalla gelosia per Nina, in cui rivede  sé stessa com’era in gioventù,  pure si ostina a difendere ostinatamente le ragioni del compagno contro quelle del figlio. Ma inutilmente: tra Trigorin e Nina c’è tempo, infatti, per un ultimo colloquio, in cui Nina annuncia allo scrittore la propria volontà di intraprendere la carriera d’attrice, e gli dona una  medaglia con sopra incise le sue iniziali e il titolo di un suo racconto, I giorni e le notti, e all’interno della medaglia un rimando misterioso a due righe del racconto stesso: pag.121, righe 11e 12. Trigorin accetta il regalo commosso:

TRIGORIN Me ne ricorderò. Mi ricorderò di come era quel giorno pieno di luce, una settimana fa, se non sbaglio: portava un abito chiaro… parlavamo… sulla panchina c’era il gabbiano bianco.
NINA (pensierosa) Sì, il gabbiano…
Pausa
NINA Non possiamo più parlare, viene gente… Prima di partire,mi conceda due minuti, la prego… 

In quei due minuti, Nina rivelerà a Trigorin la propria intenzione di lasciare la casa paterna e raggiungerlo a Mosca. Il terzo atto si chiude con i due che si baciano appassionatamente. La frase a cui alludeva la cifra incisa sulla medaglia era :«Se hai bisogno della mia vita, vieni e prendila».

Tra gli eventi del terzo e del quarto (e ultimo) atto passano due anni. La scena è sempre la stessa. Treplev, che vive sempre nella casa sul lago del fratello di Irina, Petr Nikolaevič Sorin, dove si svolge l’intero dramma, comincia a vedere pubblicati i propri lavori su qualche rivista; il suo successo non è certo consolidato come quelo di Trigorin, ma ha qualche speranza e soprattutto una nuova motivazione per continuare a lavorare. Allo zio (e al medico Dorn, altro alter ego dell’autore), che parlando del passato gli chiedono notizie di Nina, egli, che pure non l’ha mai persa di vista, racconta delle sue tristi vicissitudini: Nina ha avuto un bambino da Trigorin, morto però quasi subito; a seguito della rottura della relazione con lo scrittore, che l’ha abbandonata,  ella ha di fatto sprecato il proprio potenziale talento recitando « male, senza gusto, con toni eccessivi, gesti bruschi. C’erano, sì, degli sprazzi di talento, dei momenti in cui gridava o moriva bene, ma erano solo momenti». Non ha mai voluto ricevere Treplev, che secondo gli ordini doveva rimanere fuori dalla porta del suo camerino.

TREPLEV Che altro dirle? Poi, dopo il mio ritorno, ho cominciato a ricevere lettere. Lettere intelligenti, appassionate, interessanti; non si lamentava, ma io capivo che era profondamente infelice; ogni riga tradiva una tensione nervosa esasperata. Anche la sua fantasia era un po’ sconvolta. Si firmava “Un gabbiano”. Adesso è qui.

Nina, infatti, è ritornata alla casa sul lago sulle orme di Trigorin, che pure sa essere tornato insieme ad Irina Nikolaevna; alloggia alla locanda del paese, non potendo in alcun modo tornare alla casa di suo padre e timorosa di incontrare gli amici del passato. Una notte, tuttavia, mentre è immerso nel suo lavoro che lo lascia peno di dubbi, Treplev sente bussare alla finestra: è ovviamente Nina, che si reca da lui per un ultimo, drammatico colloquio prima di partire per Elec, con un contratto di second’ordine, dove « i soliti mercanti ripuliti cominceranno ad allungare le mani». Nina rievoca con nostalgia gli avvenimenti di quel passato che l’ha condotta dov’è ora, e che pure sa perduto per sempre; ma la sua fantasia sconvolta è fissata sull’mmagine del gabbiano, di quel gabbiano ucciso un giorno così, senza un motivo:

NINA Perché dici che baci la terra sulla quale ho camminato? Bisognerebbe uccidermi invece. (si piega sul tavolo) Ho sofferto tanto! Potessi riposare…riposare! (solleva la testa) Io sono un gabbiano… No, non c’entra. Sono un’attrice. Certo, è così! (sentendo le risa della Arkadina e di Trigorin, tende l’orecchio, poi corre verso la porta di sinistra e guarda dal buco della serratura) Anche lui è qui... (ritornando da Treplev) Eh, già… Non importa… Sì… Nna ultimo incontro TreplevNon credeva nella mia vocazione, rideva dei miei sogni e a poco a poco anch’io ho smesso di crederci e ho perduto coraggio…E poi le pene d’amore, la gelosia, la paura continua per il piccolo… Sono diventata meschina, mediocre, recitavo senza capire quello che facevo… Non sapevo dove mettere le mani, come stare in scena, come controllare la voce. Tu non puoi sapere che cosa vuol dire rendersi conto di recitare male. Io sono un gabbiano. No, non c’entra… Ricordi? Una volta hai ucciso un gabbiano. Per caso capita lì un uomo e, per ammazzare il tempo, distrugge la vita… Un soggetto per un racconto breve… No, non c’entra. (si strofina la fronte) Cosa stavo dicendo?… [… ]Ora so, ora capisco, Kostja, che nel nostro mestiere, recitare o scrivere è poi lo stesso, l’importante non è la gloria, il successo, non quello che sognavo, ma saper sopportare. Sappi portare la tua croce e credi. Io credo e questo mi allevia il dolore, e quando penso alla mia vocazione, non ho più paura della vita.

Quest’ultimo colloquio per Treplev è troppo. Vedendo andare via per sempre l’amore della sua vita, così ridotta e annientata per gioco, lei che una volta era « libera e felice», si uccide, devastato dal rimorso di aver ucciso per primo  quella creatura innocente che Trigorin aveva poi ordinato all’amministratore della tenuta di far impagliare.


RISORSE E NOTE A MARGINE

-Corsivi e grassetti nei testi sono miei;

– La foto di apertura, facente parte di una collezione intitolata  Il volo  è a firma di Maurizio Bonora ; la pubblico qui con il suo gentile permesso;

-Le illustrazioni dei testi relativi a Svevo e Čechov  sono tratte rispettivamente , con scelta e associazione assolutamente arbitraria, dalle opere di Giovanni Boldini e Il’ja Glazunov;

-Il testo integrale di Una vita;

-Il testo integrale dell’opera di Čechov nella traduzione di Fausto Malcovati, da cui  sono tratte le citazioni presenti nel post;

-La prefazione all’edizione Einaudi de Il gabbiano a firma di Angelo Maria Ripellino;

-Su Il gabbiano di Čechov, l’analisi del sito arcarussa;

-La simbologia del gabbiano, l’elemento fiabesco  e la centralità del lago nel dramma di Čechov legittimanol’ipotesi che qui l’autore si sia ricordato del celeberrimo balletto di Čaikovskij. La contrapposizione cromatica tra Nina, la prima come i gabbiani vestita di bianco,  e l’altro personaggio femminile, Maša, vestita di nero perché « porta il lutto per la sua vita», che beve di nascosto, fiuta tabacco ed è innamorata perdutamente e senza speranza di Treplev,  sembra quasi ricordare visivamente quella tra Odette e Odile, anche se qui non si tratta di una contrapposizione morale ( Maša non è malvagia), quanto piuttosto, kunderianamente,  tra la leggerezza e pesantezza;

-Il sostrato biografico de Il gabbiano viene ricostruito  in questo imprescindibile contributo da Sergio Leone, già docente di letteratura russa all’università Ca’ Foscari di Venezia, in base alla testimonianza di amici e conoscenti dello scrittore, tra i quali  il fratello Michail e lo scrittore Leonid Grossman; secondo entrambi infatti, l’episodio di Treplev che spara al gabbiano sarebbe una riscrittura di quanto effettivamente accaduto al pittore Levitan, paesaggista e amico di Čechov, invischiato in un triangolo amoroso con la moglie di un possidente dei dintorni e al tempo stesso con la figlia di lei. Vedendo un tentativo di suicidio come unica possibiltà di liberarsi di questa tresca infernale, Levitan si sparerà un colpo, ; Čechov lo troverà ad accoglierlo con una fascia nera sulla testa (come Treplev all’inizio del terzo atto), e poi lo vedrà imbracciare il fucile, scendere verso il lago e sparare ad un gabbiano, che poi deporrà morto ai piedi delle sue amanti. Anche Sof’ja Petrovna Kuvšinnikova, anche lei pittrice e moglie di un medico amico di Čechov, racconterà che Levitan avrebbe sparato ad un uccello durante una gita in barca, e alle sue furiose proteste si sarebbe confuso dichiarando: «E’ stata una vigliaccata. Depongo l’azione ai vostri piedi, non lo farò più». Quanto al personaggio di Nina, esso sarebbe stato ispirato a Čehov da Lidija Stachievna Mizinova, amica di sua sorella Marija e destinata ad «intrecciare con lui una “storia” sempre in bilico tra scherzo e tensione», come si evince dal tono della loro corrispondenza. In realtà, Lidja aveva delle speranze per questa relazione, la cui definitiva perdita la porterà ad unirsi allo scrittore- allora in voga- Ignatÿ Nikolaevic Potapenko, peraltro sposato e con figli. Le sue ambizioni- di cantante lirica- saranno frustrate, come quelle di Nina; assistendo poi alla prima del lavoro di Čechov, essa  vedrà « rappresentata la propria esistenza, non solo passata, ma anche futura»: un anno prima aveva avuto infatti (da Potapenko?) una bimba, Christina, che l’anno successivo morirà di difterite.

-La versione integrale del dramma nella celeberrima interpretazione di un giovanissimo Gabriele Lavia (Treplev), con Anna Proclemer, Ilaria Occhini, Gianrico Tedeschi, per la regia di Orazio Costa Giovangigli:

Vale però la pena di ricordare anche la versione diretta da Marco Bellocchio, con Laura Betti e Remo Girone, presentata poi  fuori concorso alla trentesima edizione del Festival del Cinema di Cannes.

gabbiano bellocchio

6 comments

  1. Dragoval, che canto di sirena cominciare con il mio amato Cardarelli, per la cui poesia- pur non potendo essa competere con certi grandi del Novecento- ho sempre avuto un rapporto emotivamente speciale. La mia lirica non suppone che sintesi. Luce senza colori, esistenza senza attributi, inni senza interiezioni, impassibilità e lontananza […]. Vincenzo Cardarelli
    ( Prologhi, Viaggi , Favole). E poi Una vita , che attrae come certi gorghi di acqua, da cui si vorrebbe fuggire mentre imprigionano e affascinano,
    Più lontano, nella mia memoria , è Il Gabbiano di Cechov, da rileggere dunque anche se la tua intensa analisi me lo rende presente e completo.
    E poi, e poi… mettiamoci che da poco sono stata a Trieste, una sorta di Wahlheimat, che ho rivisto i luoghi di Svevo e i gabbiani planare su quel golfo; che stavo in via del Lazzaretto Vecchio ( C’è a Trieste una via dove mi specchio nei lunghi giorni di chiusa tristezza; si chiama Via del Lazzaretto Vecchio, Umberto Saba) e che una mattina svoltando da questa via ho incrociato Claudio Magris …
    Insomma, cara Dragoval, quante emozioni in questo asterismo…

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    1. @Renza
      Anch’io amo moltissimo Cardarelli, poeta secondo me ingiustamente accantonato a causa di una certa tradizione critica che ci ha condizionato per decenni e che non poteva ammettere che esistesse letteratura senza engagément.
      Ma il discorso sarebbe lungo,e forse, oramai, anche inutile.
      Meglio tornare a Trieste.
      Curiosamente, da qualche anno a questa parte, sembra che tutte le strade letterarie per me conducano a Trieste; a parte il mio amatissimo Svevo, c’è poi Saba (che meraviglia sentirtelo citare), ed ultimo, appunto, ma solo in ordine di tempo, Claudio Magris.
      Spero tanto, un giorno, di poterla visitare.
      Un saluto, e grazie, questa volta anche per i racconti e le emozioni di viaggio che hai voluto condividere.

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  2. Dragoval, ti auguro di conoscere presto Trieste, città affascinante dove l’ atmosfera tutta parla di quella cultura letteraria a te cara. Il mare, l’ alto Adriatico così suggestivo su cui si protrae la piazza forse più bella d’ Italia ( spero di non aver offeso nessun’ altra piazza…) l’ architettura e i famosi Caffè, sembrano restituire al visitatore le pagine di Svevo e i versi di Saba. Senza dimenticare Duino e le relative elegie…Non saprei dirti perchè alcune città siano riuscite a mantenere le atmosfere creative di chi lì ha vissuto, creato e forse sofferto. Trieste è una di quelle città, insieme con Torino, dove in via Po mi sembra sempre di ritrovare Pavese.
    E per tornare al nostro Cardarelli , come dimenticare quella figura volitiva che ha dormito sulle panchine dei parchi pubblici; e, nei periodi grassi, in stanze in affitto; che vestiva sempre con un cappotto pesante anche in piena estate? Oltre ai suoi versi, anche le pagine per così dire turistiche sono particolari : in Villa Tarantola certe immagini di città – per esempio Ferrara- sono davvero eccezionali. Un saluto affettuoso. e a Trieste, a Trieste…

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  3. Mi infilo, non invitata ospite, sol per dire che….TRIESTE è Trieste, e s’ha da da vedere. La piazza di Trieste (quella du cui parla Renza) non solo è una meravaglia, ma a mio parere è pari solo alla Praća do Comerco i a Lisboa. Ma lasciamo perdere. Questa o quella, per me pari sono.

    Piuttosto, che mi dite di

    Trieste
    Dasa Drndic
    Editore: Bompiani
    Collana: Letteraria straniera
    Anno edizione: 2015
    Pagine: 448 p., Brossura

    …La nostra Padrona di casa credo il libro lo abbia letto…

    Anche quella è Trieste.

    Byebye

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    1. @Gabrilu -e @Renza
      Con le scuse per il ritardo imperdonabile- il romanzo di Daša Drndic è un libro terribile, che troppo ci rivela della nostra storia recente, cose che si avrebbe fortissima la sensazione di seppellire e dimenticare, tentaione a cui sempre, nonostante l’orrore, bisogna resistere.
      Per me- ma forse solo per la mia esperienza personale di lettura- andrebbe letto contestualmente a Non luogo a procedere di Magris, perché le due opere, diverse ovviamente per stile ed impianto narrativo ma affini per ambientazione e tematiche trattate, si illuminano reciprocamente.
      Entrambi bellissimi, atroci, folgoranti; quello della scrittrice getta luce anche sull’orribile progetto Lebensborn, di cui io nulla sapevo.
      Forse sono entrambi libri di cui non è possibile parlare, che vanno letti e basta, perché significar per verba/non si poria(no), pulsanti come sono di un vissuto di dolore ancora bruciante- soprattutto per quelli che lo hanno vssuto sulla propria pelle,e lo portano inciso addosso, addirittura, in alcuni casi, nel loro patrimonio genetico.
      Un saluto e grazie- come sempre- ad entrambe.

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  4. Sarà che io sono sempre una assatanata del contesto, ma quando stando sul balcone del mio 13° piano vedo volteggiare sulla mia testa a pochissimi metri da me gabbiani dalla faccia per nulla simpatica ed ai quali (giusto per esser chiari) sparerei volentieri un colpo di fucile, se il fucile l’avessi —ecco…. faccio un po’ di fatica a re-immergrmi nella poetica dei gabbiani.
    …Ma certo, la poesia è altra cosa 🙂
    (Io sparo, tu scrivi.Mi sembra ottima cosa)

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